Pelé abbraccia Amarildo dopo la vittoria finale nel Mundial 1962
Gli anni sessanta furono gli anni di Uccellino Kurt Hamrin, per gli altri stranieri ci fu poca gloria. Perfino un campione come Ramon Lojacono passò in second’ordine, e finì per essere una meteora. Nel 1967, le cose però cambiarono. La Fiorentina ye ye di Baglini puntava sui giovani, vendette Hamrin al Milan e acquistò dai rossoneri il ventisettenne talento Amarildo Tavares da Silveira, detto Amarildo, campione del mondo con il Brasile nel 1962, attaccante di Fluminense, Botafogo e Milan, appunto, con il quale però aveva vinto soltanto una Coppa Italia.
Amarildo era già un personaggio di quelli che fanno la leggenda del calcio. Nel 1962, all’inizio dei mondiali cileni, si fece male la Perla Nera, il giovane riconosciuto incontrastato numero uno del calcio carioca e mondiale, Edson Arantes do Nascimiento, altrimenti detto Pelé.
Poco male, il Brasile dell’epoca era una tale fucina di talenti che il CT Moreira trovò subito il sostituto nel giovane (anche lui) talento del Botafogo Amarildo. Come andò lo sanno tutti, passeggiata del Brasile e secondo titolo mondiale consecutivo. L’anno dopo Amarildo fu ingaggiato dal Milan, non prima però di aver compiuto un gesto eclatante.
Nel maggio 1963 il Brasile campione del mondo venne in Italia a giocare una amichevole contro gli azzurri, a San Siro. Fu la storica partita in cui il terzino Giovanni Trapattoni non fece vedere palla alla Perla Nera, che aveva ripreso il suo posto da titolare, e l’Italia finì per vincere 3-0. Ad un certo punto Moreira provò a mischiare le carte, e disse ad Amarildo di alzarsi dalla panchina e scaldarsi. Amarildo rispose no, lui era il vero campione del mondo e non ci stava a fare da riserva nemmeno a Pelè. A cui non portò mai rispetto, anni dopo, chiestogli chi fosse il più grande di tutti i tempi tra Pelè e Maradona, rispose senza esitazioni: Garrincha.
Di Amarildo milanista si ricorda poco, la gloria italiana per lui arrivò a Firenze, dove vinse lo scudetto nel 1968-69, componente essenziale del trio d’attacco formato anche da Maraschi e Chiarugi. In 62 presenze Amarildo segnò 16 reti, prima di passare alla Roma. Suo è anche il record dei cartellini rossi, 10, uno dei giocatori non-difensivi più sanzionati nella storia del calcio italiano. Forse per questo la sua carriera viola durò solo tre anni. Una squadra che aveva già Cavallo Pazzo Chiarugi, non poteva permettersi anche le sue intemperanze.
Eppure Amarildo, a fianco della saudade che pervade ogni brasileiro che si rispetti, sviluppò un forte sentimento anche per il capoluogo toscano, dove mise su famiglia, trovando la sua compagna, Fiamma, con cui sta insieme da 42 anni, e mettendo al mondo il suo primogenito Rildo, fiorentinissimo doc. Aveva tutto per rimanere nel cuore dei fiorentini questo campione, eppure stranamente fu accantonato troppo presto, anche nella memoria. Dopo aver tentato la sorte come allenatore, Amarildo non ebbe miglior fortuna di tanti suoi compagni del 1969, non riuscendo ad andare oltre la provincia toscana: Pontedera, Rondinella, e poco altro.
Nel 1990, con l’arrivo di Sebastiao Lazaroni sulla panchina della prima Fiorentina targata Cecchi Gori, sembrò giunto il suo momento, perché il tecnico carioca lo scelse come secondo. Durò poco e finì male. Amarildo non aveva avuto paura di opporsi a Pelé, figurarsi se poteva dire di sì a Vittorio Cecchi Gori quando questi gli impose di far esordire in serie A tale Bartolelli, figlio di un amico del figlio del presidente viola, senza alcun altro merito sportivo. Amarildo fu cacciato ancora prima del titolare Lazaroni.
Da allora l’ex ala sinitra estrosa dell’ultimo scudetto ha diviso vita e cuore fra la patria anagrafica e quella di adozione, facendo l’osservatore di calciatori. Per dirne uno, Hernanes, fuoriclasse a lungo in forza a Lazio e Inter, era stato a suo tempo da lui segnalato alla Fiorentina, ma Amarildo non aveva avuto con Della Valle più fortuna di quella a suo tempo incontrata con Cecchi Gori. Del resto, per uno che parla sette lingue, forse all’epoca fu difficile intendersi con un DS che ne parlava a malapena il dialetto pugliese: Pantaleo Corvino.
Poco dopo, Amarildo si ammalò. Tumore alla laringe, sembrava spacciato, invece con il suo carattere e l’affetto della sua famiglia (in primis quello del figlio Rildo, che mobilitò l’opinione pubblica cittadina e non solo a favore del padre) ne è venuto fuori. In Brasile ha ripreso la sua attività di osservatore, durante e dopo la convalescenza. Tempo fa ebbe a dichiarare: «Solo qui a Rio ci sono decine di Neymar, ma tanti procuratori vengono e non vedono (…) i presidenti dei club italiani pensano che più spendi, più sei bravo e vinci. Non hanno capito niente…».
Tra le figurine dell’album del secondo scudetto, quella di Amarildo è una delle più belle, e da conservare gelosamente. «Io non ho mai dimenticato nessuno, tutti i miei compagni di squadra li porto sempre nel mio cuore. Ho due sogni per il futuro: tornare a lavorare per i club italiani, ma prima di tutto, fare una passeggiata mano nella mano con mia moglie Fiamma per le strade di Firenze come quando eravamo giovani. Ci penso tutti i giorni…».
Ci sono tanti ragazzini degli anni sessanta che lo sognano ancora, Amarildo Tavares da Silveira. Dopo di lui, per lungo tempo niente stranieri. Dopo il disastro dei Mondiali del 1966 contro la Corea del Nord, la FIGC decise di chiudere le frontiere, per ridare vigore ai vivai nostrani. Cosicché, dopo la breve apparizione dei brasiliani Sergio Clerici e Angelo Benedicto Sormani, inferiori a lui e per di più a fine carriera, la Fiorentina negli anni 70 fu tutta italiana. Finché nell’estate del 1980 la Federazione decise di riaprire al mercato estero. E il cuore viola di Firenze tornò a battere al di là dell’Oceano Atlantico. Ma questa è un’altra storia.
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