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Il Leone del Panjshir

Il primo a portarlo alla ribalta dell’opinione pubblica internazionale era stato Ken Follett, nel suo best seller Un letto di leoni in cui raccontava una storia di spionaggio occidentale nell’Afghanistan messo a ferro e fuoco dall’invasione sovietica. Aḥmad Shāh Masʿūd era uno dei capi ribelli che si dovevano incontrare con i protagonisti americani di quella storia.

Gli addetti ai lavori lo conoscevano già, anche se a quell’epoca – nei primi anni ottanta e nel pieno della guerra scatenata dalle tribù ribelli per opporsi alla conquista di fatto del loro paese da parte dell’Armata Rossa sovietica, messa in atto come aiuto fraterno nei confronti del partito comunista afghano che aveva preso il potere con un golpe – nessuno poteva immaginare che tra tutti i leoni lui sarebbe diventato quello dal ruggito più potente. Il Re.

Gli occidentali avrebbero scritto il suo nome sillabandolo come Massoud. E avrebbero finito per conoscerlo soprattutto con il soprannome unanimemente accettato di Leone del Panjshir. L’avrebbero conosciuto tuttavia quando ormai era troppo tardi, e la sua guida carismatica sarebbe venuta meno a tradimento, insieme a tante altre nostre certezze.

Massoud era il simbolo dell’Afghanistan moderno, prima ancora di diventarne la guida spirituale, politica, militare. Era nato il 2 settembre 1953, nel bel mezzo della laicizzazione di uno stato che finalmente si trovava padrone del proprio destino dopo i lunghi secoli della dominazione islamica e in un momento di relativa tregua nel grande gioco che faceva del paese un crocevia nevralgico della geopolitica dell’Asia.

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La storia dell’Afghanistan la raccontiamo in altra parte del giornale, da Alessandro Magno fino alla caduta del sultanato nel 1926 ed alla instaurazione di una monarchia tendenzialmente laica. Il giovane Massoud, come tanti suoi coetanei, era imbevuto di cultura occidentale, acquisita frequentando il liceo francese ed il politecnico sovietico presenti a Kabul, la capitale del regno, e di un catechismo religioso islamico che viveva l’Islam non come religione di conquista e sopraffazione ma piuttosto come identificazione con la difesa nazionale.

Come studente prima e come intellettuale – assai raffinato – poi, Massoud aveva assistito impotente alla storia schizofrenica del suo paese fino agli anni settanta. Anni in cui -incredibile se pensiamo al dopo e allo stesso oggi – le donne potevano girare per Kabul in minigonna come le loro coetanee parigine. Anni in cui ci si interrogava sulla laicizzazione ulteriore della cultura del paese, e sulla necessità di riforme che portavano lontano.

Per gli afghani, anche l’Unione Sovietica faceva parte dell’Occidente, e neanche del peggiore, se si pensa che le ragazze afghane continuarono a poter girare in minigonna anche dopo che l’amico fraterno si era trasformato in sanguinario oppressore. Non tutti coloro che si battono per l’indipendenza poi sono disposti a riconoscertela anche in casa tua. Non tutti gli oppressori sono capaci alla fin fine degli eccessi di chi dice di battersi per il tuo paese e per i valori tradizionali.

Negli anni settanta, Massoud era stato spesso un fuoruscito malvisto dalla polizia del re prima e della repubblica poi, dopo i suoi ripetuti tentativi di influenzare la politica del suo paese che l’avevano portato in urto sia con il partito islamico tradizionalista di  Gulbuddin Hekmatyar che con il  Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, il partito comunista locale che avrebbe alla fine nel 1978 realizzato il sogno plurisecolare dei russi di poter mettere piede nel crocevia degli imperi.

Nel 1979, l’invasione dell’Armata Rossa gli semplificò le cose. Come leader politico si era fino a quel momento dimostrato poco esperto e maldestro, come comandante militare si rivelò in breve tempo una leggenda. Fu il primo a capire che l’Afghanistan si sarebbe potuto rivelare per i russi ciò che il Vietnam si era rivelato per gli americani. Golia avrebbe potuto essere logorato da Davide fino alla batosta finale. Massoud come Giap, come Mao Tze Tung, come Che Guevara.

Il Panjshir aveva a quel punto il suo leone, anche se non lo chiamava ancora così. La regione montuosa e impervia del nord-est dell’Afghanistan aveva già la sua alleanza, anche se non si chiamava ancora Alleanza del Nord. Il tagiko Massoud combatteva la stessa battaglia dei pashtun di Peshawar (che gli occidentali avevano imparato a conoscere grazie al National Geographic, ed alla celeberrima foto di Steve McCurry che aveva immortalato la famosa Ragazza afgana dagli occhi verdi) e dei radicali islamici di Hekmatyar.

Logorare l’URSS su quelle montagne fu altrettanto facile per i guerriglieri afghani, dal nome divenuto altrettanto leggendario di Mujaheddin, di quanto lo era stato per i Vietcong logorare l’esercito USA nella giungla vietnamita. Su quelle montagne finì addirittura la Guerra Fredda. Nel 1989, nello stesso momento in cui a Berlino cadeva un altro simbolo del Blocco Sovietico, l’Armata Rossa tornava in patria con le ossa più che rotte, ed il comunismo che aveva creduto di conquistarsi finalmente una delle sue gemme più preziose ed ambite, finiva lì.

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Massoud era uno dei vincitori, ed il nuovo governo lo volle come ministro della difesa. Ma nel fronte comune che si era battuto contro i russi e che era stato ampiamente a tale scopo supportato dagli americani, i radicali islamici avevano preso troppa preminenza. Nel 1996 Massoud era di nuovo nel Panjshir a prepararsi ad una nuova guerra di resistenza. Kabul a quel punto era caduta in mano ai Talebani. Le donne dovettero nascondere in fretta e furia i pochi capi di abbigliamento alla occidentale che avevano salvato, mentre il nuovo regime dei fanatici del Corano le dichiarava nuovamente quello che erano state da che Islam è Islam: delle bestie senz’anima, senza nemmeno un nome da poter dichiarare in pubblico che non fosse quello del marito.

Il Panjshir ebbe finalmente la consacrazione del suo leone, mentre i Talebani facevano a pezzi altri simboli come i Buddha di Bamyian, millenario simbolo della civiltà e delle vette che suo malgrado l’uomo è capace di raggiungere quando lascia parlare la cultura e non le armi.

L’Alleanza del Nord lavorava ai fianchi l’esercito dei nuovi Califfi così come si era lavorata quello degli ultimi comunisti. Al principio del ventunesimo secolo tuttavia i Talebani avevano trovato nuovi alleati, i jihadisti di Al-Qaida e Osama Bin Laden, lo sceicco del terrore. L’anno 2001 era agli occhi di tutti un anno critico, qualcosa doveva pur succedere per spezzare l’equilibrio precario delle forze in campo.

Il 9 settembre 2001 una sedicente emittente marocchina chiese una intervista al Leone del Panjshir, che questi non vide motivo per non concedere. La propaganda è una delle armi con cui si combattono le guerre moderne, così come quelle antiche. Ma lo é anche il tradimento.

Osama Bin Laden

Osama Bin Laden

Due giornalisti tunisini si avvicinarono a Massoud con una telecamera in cui era nascosta una bomba. I kamikaze non ebbero scampo, ma nemmeno lo ebbe il Leone. C’è un solo modo di cogliere di sorpresa il possente re della foresta, della savana, del mondo in cui le bestie più selvagge si combattono con vari gradi di ferocia e di astuzia: il tradimento. Massoud per Bin Laden era come una porta sbarrata per prendersi l’Afghanistan. Di fatto, un alleato potente degli americani che si preparava ad attaccare.

Aḥmad Shāh Masʿūd rimase a terra, e con lui il cuore di un popolo che lo aveva identificato come il suo liberatore. Un popolo che non ebbe tempo tuttavia di disperarsi per la ripresa di potere dei Talebani e dei loro alleati jihadisti. Due giorni dopo l’attentato a Massoud un’altra notizia si prese d’imperio le prime pagine dei giornali. Al-Qaida aveva attaccato nientemeno che le Torri Gemelle a Manhattan con due aerei kamikaze. La guerra non era più locale, se mai lo era stata. Diventava una guerra mondiale.

Un mese dopo, Enduring Freedom portò una grande coalizione occidentale su quegli stessi terreni che il Leone del Panjshir aveva conteso palmo a palmo ai fanatici islamici, e la sorte di costoro fu segnata. A festeggiare, in una Kabul che lentamente riprendeva ad alzare la testa in previsione di un ritorno ad una parvenza di vita civile e moderna, il Leone non c’era.

Ma il suo ruggito lo sentivano tutti.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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