Dalla notte degli Oscar 2019 esce il responso che molti attendevano. Alle prime luci dell’alba, il sogno di Peter Farrelly diventa realtà ed il suo capolavoro Green Book riceve la Statuetta d’Oro come miglior film, mentre Mahershala Ali viene premiato come migliore attore non protagonista. Non è una sorpresa, come dice qualcuno, era praticamente un atto dovuto, per chi ha visto il film. Peccato solo che i giurati si siano sciupati alla fine negandolo anche a Viggo Mortensen, senza la recitazione del quale esso perderebbe la metà della sua efficacia.
La sensazione è che sia stata premiata solo la parte politicamente corretta della pellicola diventata l’Oscar 2019, il che starebbe a dimostrare che il suo messaggio è andato perso o non compreso, in tutto o in parte. Come tutti i premi attribuiti ad opere d’arte, tuttavia, è giusto dire che l’Oscar produce ingiustizie sempre e comunque, dovendo andare ad un solo vincitore. E così il giusto premio a Rami Malek che ridà vita a Freddy Mercury in Bohemian Rapsody finisce per penalizzare il collega che dai tempi in cui interpretò Aragorn nel Signore degli Anelli attende un riconoscimento altrettanto giusto, avendo già collezionato almeno tre nominations.
Succede, quando si consegnano premi che sarebbero più adatti a competizioni sportive. Le opere d’arte non dovrebbero competere l’una con l’altra, ma soltanto farsi ammirare l’una dopo l’altra in appositi spazi espositivi. Ma siamo nella terra che ha inventato il cinema, rendendolo la Decima Musa. Siamo a Hollywood, in pieno star system. Che cosa sarebbe l’America senza competizione?
Giustizie e ingiustizie, nominations e sorprese, felicità e delusioni si alternano da sempre, da quando nel 1929 l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, in pratica l’ordine professionale dei produttori cinematografici della California, istituì il premio denominato Academy Awards (poi ribattezzato Premio Oscar dopo che – secondo la leggenda – un’impiegata dell’Academy, tale Margaret Herrick, ammirando la Statuetta d’Oro, esclamò: «assomiglia proprio a mio zio Oscar!»).
All’inizio, l’Academy ebbe l’intuizione giusta, meglio due vincitori che uno. L’Oscar del 1929 andò ad Aurora di Friedrich Wilhelm Murnau (l’autore di Nosferatu) come miglior film e ad Ali di William A. Wellman come miglior produzione. Una sorta di capzioso ma al tempo stesso astuto ex equo. L’anno dopo, 1930, furono disputate addirittura due edizioni del Premio. Nella prima, tenutasi ad aprile, vinse La canzone di Broadway, regia di Harry Beaumont, film di cui non è rimasta traccia così come delle altre nominations poi sconfitte. Nella seconda, che ebbe luogo a novembre, la trasposizione sul grande schermo del capolavoro letterario antimilitarista di Erich Maria Remarque, All’ovest niente di nuovo, sotto la regia di Lewis Milestone, non ebbe avversari di pari valore.
Dall’anno dopo, 1931, si passò alla formula attuale. Nei primi anni, tanti bei film, nessuno però tale da meritarsi di rimanere nella storia. Nel 1936 La tragedia del Bounty, regia di Frank Lloyd, con Charles Laughton nei panni del famigerato capitano William Bligh e Clark Gable in quelli di Fletcher Christian, sbaragliò i tanti avversari pur di buon nome (da Cukor a Curtiz a Wyler), mentre due anni dopo Orizzonte perduto di Frank Capra, il mito di Shan-Gri-La, pagò pegno a Emile Zola, rappresentazione incolore dell’eroe dell’affaire Dreyfuss. L’anno dopo toccò al miglior Robin Hood di sempre, Errol Flynn per la regia di Michael Curtiz, inchinarsi ad uno scialbo La eterna illusione con cui Capra fu risarcito dell’anno precedente.
Dal 1940 cominciò la sovrabbondanza. Via col vento di Victor Fleming ebbe ragione del Mago di Oz dello stesso Fleming, di Ombre rosse di John Ford, di Uomini e topi di Lewis Milestone, e furono altrettante inevitabili ingiustizie. Nel 1941 uno dei capolavori di Alfred Hitchcock, Rebecca la prima moglie, tolse dal gradino più alto del podio nientemeno che Il grande dittatore di Charlie Chaplin. Ford si rifece l’anno seguente, a spese di Orson Welles che presentava Quarto potere e dello stesso Hitchcock con Il sospetto.
Nel ‘44 contro Casablanca di Michael Curtiz combatté inutilmente Per chi suona la campana di Sam Wood. E così via, Lawrence Olivier che con il miglior Amleto di tutti i tempi toglieva il premio nel 1949 a John Houston con Il tesoro della Sierra madre. Un americano a parigi di Vincent Minnelli faceva le scarpe a Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan nel 1952.
L’elenco è lunghissimo, da allora ad oggi. E’ un elenco di ingiustizie inevitabili. O forse no? Vi immaginate Guernica di Picasso che toglie il titolo di miglior quadro alla Gioconda di Leonardo?
E’ lo show business, bellezze……
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