«Ci sono cose di cui mi pento, altre di cui non posso proprio farlo», dice in punto di morte Lorenzo il Magnifico nella fiction recentemente andata in onda.
Se c’é una cosa di cui non mi pento è quella di aver sempre cercato da queste colonne di mantenere – o almeno di rievocare – una immagine di Firenze ed un sentimento dei fiorentini e della fiorentinità che non si discostasse troppo da quelli del tempo del Magnifico. O almeno da quelli che da esso erano arrivati fino ai nostri giorni, sopravvissuti a tante peripezie e tramandatici nella nostra infanzia. Quando camminavamo per strade che non erano ancora troppo diverse da quelle in cui avevano risuonato i passi del Magnifico stesso e dei suoi cortigiani ed artisti, e sentivamo attorno a noi le voci di uomini e donne non dissimili nel suono e nello spirito da quelle che avevano riecheggiato molto prima di loro.
L’ho fatto e lo farò ancora, consapevole che è una battaglia persa, ma è l’unica. Firenze è una città affacciatasi al ventunesimo secolo con molti più problemi di quelli presa da cui aveva salutato il ventesimo. I monumenti sono sempre al loro posto, per carità. L’Arno fluisce regolare (o quasi) sotto i suoi ponti. I barrocciai di San Lorenzo e Sant’Ambrogio si lanciano ancora richiami e battute in volgare fiorentino mentre le ruote dei loro carretti risuonano sul vecchio acciottolato delle stradine che dai fondi e dalle rimesse conducono ai mercati.
Tutto questo c’é ancora, ma ormai è una cartolina per turisti. Sembra ci sia tutto invece ‘un c’é nulla, avrebbe detto il Conte Mascetti. Sono i fiorentini che non ci sono più. Quelli veri, quelli che si sentivano ancora discendenti a buon diritto del Magnifico e figli legittimi del suo Rinascimento. Quelli che avevano rimesso in piedi la città in poche settimane, sia dopo la guerra che dopo l’alluvione, senza quasi perdere il sorriso dalle labbra. Quelli che avevano una battuta dissacrante per tutto e sembravano non prendere sul serio nulla. A parte le cose che avevano veramente a cuore.
Una di queste era la Fiorentina. Di Firenze vanto e gloria, recitava l’inno, il più antico d’Italia. Lo era davvero e lo sapevamo tutti, la voce di Narciso Parigi ce lo ricordava e ce lo confermava e basta. C’era qualcosa in quelle maglie viola e nel portamento di chi le indossava, campione o gregario che fosse, che ci inorgogliva sempre. Avevamo sempre e comunque vinto prima di giocare. Anche nei periodi più bui, quelli della retrocessione del 1938 e quelli delle retrocessioni sfiorate negli anni ‘70 e poi subite negli anni ‘90.
Un sindaco di allora ebbe a dire che se la squadra andava in serie B era lei che retrocedeva, non la città di Firenze. Con il senno di poi, posso dire oggi che non era vero, non può esserlo. Firenze e la Fiorentina sono sempre state una cosa sola, due rovesci della stessa medaglia. L’una inorgoglisce – o al contrario angustia – l’altra. Come quando abbiamo vinto lo scudetto l’abbiamo fatto tutti (e a buon diritto tutti eravamo in quel carosello al Piazzale), così quando si è trattato di retrocedere non c’é cittadino (vero) di questa città che abbia potuto a ragione chiamarsene fuori. In B ci siamo andati tutti, e la fatica che abbiamo fatto dopo – ed in certi casi facciamo ancora – per ritirarci su la sentiamo tutti nelle nostre giunture nel frattempo diventate sempre più vecchie.
Sono nato nel quartiere di Santa Croce, potrei a buon diritto guardare dall’alto in basso tanti che pur proveniendo abbondantemente da fuori le mura medicee oggi pretendono di dare lezioni di fiorentinità, stabilirne i nuovi parametri. Non lo faccio, non sarebbe giusto. Se ha un pregio anche in questi tempi oscuri, Firenze è sempre stata una città accogliente. Da quando ai tempi d’oro richiamava artisti da tutto il continente a quando in tempi recenti si è stretta per far posto a migranti che non sempre avevano titolo a chiamarsi tali, men che meno diritto ad essere qui.
Stringiamoci ancora, se del caso. La nostra dimensione morale e materiale del resto non è quella dei boulevards, ma piuttosto quella dei vicoli e delle volte rimasti uguali da quando ci passava Cacciaguida. Ma stiamo più attenti ai discorsi di coloro che pretenderebbero oggi di ridisegnare i nostri confini, morali e materiali, di riprogettare la nostra dimensione, di ridiscutere i nostri valori.
Questa città non ha più da tempo non soltanto una vera cittadinanza, ma anche e soprattutto una classe dirigente fiorentina. Succedeva anche ai tempi antichi che si chiamassero a governare Signorie da fuori, vista l’impossibilità di ricompattare, riconciliare una città ed un corpo sociale che sono sempre stati divisi per definizione, per vocazione. I Guelfi ed i Ghibellini in fondo li abbiamo inventati noi.
Ma adesso si tratta di Signorie che pretendono di sfruttare il marchio, il cosiddetto brand di Firenze, e basta. Magari peggiorando e devastando l’immagine stessa che poi vorrebbero continuare ad utilizzare sulla loro cartolina o sul loro stemma.
Sulla cittadinanza c’é poco da fare, siamo in balìa del destino e dei tempi, per usare un termine fiorentino. Quanto alla classe politica, non la possiamo più esiliare come succedeva ai tempi di Dante. Potremmo farlo con il voto, ma questo è un discorso che porterebbe lontano, fuori dal seminato.
Anche la classe imprenditoriale è quella che è. La storia della Fiorentina negli ultimi 40 anni è emblematica. Al povero Ugolini – il predidente che negli anni ‘70 per salvare la società, la squadra ed il gioiello più prezioso, Giancarlo Antognoni, ci rimise il suo patrimonio, o quasi – succedettero i Pontello, conti che avevano un blasone conquistato nell’edilizia e una cittadinanza acquisita solo nell’ultimo dopoguerra. A loro seguirono i Cecchi Gori, cinematografari trapiantati a Roma come succedeva agli artisti – Michelangelo Buonarroti su tutti – al tempo dei Medici. Storie nostrane, vecchie come le case di questa città. Patriarchi che fondavano imperi economici, figli d’arte ed eredi che non si rivelavano poi all’altezza.
Dopo una congiura che non ebbe nulla da invidiare a quella dei Pazzi, la Fiorentina passò di nuovo di mano con il nuovo secolo. Siccome in tutta Firenze e dintorni un fiorentino disposto a comprarla non si trovava, eccola andare in dote al primo dei signori provenienti da fuori Toscana, il magister elegantiarum che veniva dalle Marche, Diego Della Valle. A quel punto ci fu una frattura probabilmente insanabile, un corto circuito civile e non solo. Firenze da allora ha continuato ad identificarsi con la sua squadra e con la sua maglia viola, ma ha smesso di farlo la sua classe dirigente, a Palazzo Vecchio, a Viale Manfredo Fanti, dovunque si trovasse a comandare.
Fino al fatuo (non meno del figlio del Magnifico, Piero) Vittorio Cecchi Gori, la Fiorentina era stata ancora una questione di cuore, magari matto ma pur sempre cuore. Chi la possedeva si frugava in tasca e spendeva né più e né meno di quanto aveva fatto Lorenzo dè Medici. Si compravano Batistuta e Rui Costa, così come una volta si chiamavano, o richiamavano, Leonardo da Vinci o Sandro Botticelli.
Scordiamocelo, tutto questo è finito con il secolo ventesimo. Adesso i signori vengono qui per fare affari, e chi vi parla di identificazione con valori comuni – come il vulcanico Joe Barone nella recente conferenza stampa di presentazione del salvatore della patria Beppe Iachini, il nuovo capitano di ventura (e speriamo non di sventura) viola – dice una bufala sapendo di dirla.
La famiglia Barone, assieme alla famiglia Commisso, dovrebbero trascorrere qui un paio di secoli prima di avere una pallida idea di quali valori stanno parlando e di cosa comporta condividerli con questa città. Bastasse indossare i panni del Magnifico Messere, farsi un tot di cene dei Viola Club e farsi il giro dello stadio a bordo campo con la sciarpa viola al collo, sarebbero a posto. Sono molto lontani dall’esserlo, invece.
Tutto viene meno e crolla, come quel Lungarno due o tre anni fa, quando alla prima difficoltà ci presentano Beppe Iachini. Massimo rispetto per la persona, sia chiaro, e per il suo lavoro, un valore ed un’etica ai quali lui si richiama spesso (e Dio sa se c’é bisogno che ad essi vengano richiamati anche quei ragazzotti che la domenica vanno in campo con i nostri colori).
Ma dire che con lui ci si richiama anche alla storia della Fiorentina ci pare eccessivo. Ridimensionare il progetto, quale che fosse, ad una gagliarda e permanente lotta per la retrocessione al grido di «picchia per noi, Beppe Iachini!», ecco, quello crediamo che con Firenze non c’entri niente. A meno di non scambiare l’età dell’oro medicea con il tumulto dei Ciompi, sempre con rispetto parlando.
La nuova Signoria ha ancora parecchio da imparare, parecchia acqua dell’Arno da veder scorrere sotto i ponti e parecchia mente locale da fare prima di pensare al suo futuro qui e rendercelo presentabile. Il nostro futuro di fiorentini non ha bisogno di veder tinti di viola edifici che per quanto importanti stanno dall’altra parte del mondo. Né ha bisogno di sentir ancora risuonare quel Fast! Fast! Fast! che francamente c’é bell’e venuto a noia.
A Firenze non è importante fare le cose veloci, e del resto non succede. Santa Maria del Fiore fu tirata su in un secolo e mezzo, figurarsi se crediamo allo stadio in sei mesi come fanno altrove. L’importante è che le cose siano fatte per bene. E per ora i ragazzi venuti dall’America hanno tanto, ma tanto da imparare, malgrado un altro recente immigrato, il sindaco Nardella, si spelli le mani ad applaudirli ad ogni occasione.
Ieri compiva gli anni il vecchio proprietario, per la prima volta dopo 17 anni non più proprietario. Credo sia semplice questione di educazione fargli gli auguri, che si goda in pace e serenità gli anni che gli rimangono, anche se non resterà nella nostra storia come il vincente che forse per una breve stagione aveva sperato di essere.
Al nuovo proprietario faccio auguri altrettanto sinceri, ma interessati allo stesso tempo. Firenze di discorsi, pronunciati in un qualunque dialetto, non ne può più. Firenze vuole fatti, quelli che una volta – senza andare tanto indietro fino al Magnifico – si facevano e basta. Poi dopo semmai si parlava, in qualunque dialetto.
Per ora tra i due ultimi proprietari della nostra squadra del cuore la differenza sta tutta nel foulard. Quello di prima ce l’aveva, quello di adesso no.
Non mi piace la Fiorentina che picchia come Beppe Iachini. Non mi piace Firenze ridotta così. Non ho perso ancora del tutto il mio sogno. Il nostro sogno, di fiorentini, sbocciato e coltivato nella nostra infanzia trascorsa su lungarni e strade da cui vedevamo spuntare il sole allo stesso modo, con la stessa magia irripetibile (e tuttavia ripetuta tutti i giorni) con cui lo vedeva spuntare Lorenzo dal suo palazzo in Via Larga.
E’ il sogno che credo vorremmo portarci dietro fino al nostro ultimo giorno. Essere nati, vissuti e morti in un posto dove si fa arte. Grande arte, la più grande. Magari non solleveremo altre coppe, ma nemmeno ci ridurremo a ritornare ad essere quel borghetto che non siamo più dai tempi di Matilde di Canossa. Che picchi qualcun altro, per sé e per chi gli paga lo stipendio.
Buon anno Firenze.
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