Tutti muoiono, non tutti però vivono veramente.
(William Braveheart Wallace)
L’epopea di Trieste comincia a Roma. Nella capitale, ci sono due piazze storiche dove il popolo usa ritrovarsi a manifestare la propria protesta così come il proprio assenso alla politica ed alle istituzioni. Una è quella intitolata a San Giovanni, storicamente affittata dalla sinistra prima e dalla destra poi, e proprio per questo forse troppo etichettata quando parte un nuovo periodo di contestazione e si tratta di scegliere il luogo del suo primo raduno.
Il popolo stavolta si muove da solo, senza capipopolo, senza partiti o sindacati, tutta roba che ha dimostrato ampiamente in questa congiuntura del covid19 di essere datata, inservibile per mantenere al popolo stesso i propri diritti. Quelli scritti nella Costituzione del 1947 e quelli guadagnati in cinquant’anni di controverse lotte cominciate con lo Statuto dei Lavoratori e con le grandi battaglie civili degli anni settanta.
No, il popolo stavolta preferisce l’altra piazza, quella a lui stesso intitolata. Secondo una leggenda denigratoria, il nome populus è riferito al pioppo, di cui la piazza era contornata all’epoca della sua edificazione ad opera del Papato, non propriamente peraltro una istituzione democratica. L’altra leggenda vuole che sempre un Papa, Pasquale II, facesse erigere in loco una cappella intitolata a Santa Maria, beffardamente – appunto – a spese del popolo, cioè con denaro pubblico, estorto dalle tasse.
A Roma il popolo è sempre stato un soggetto strano, sbeffeggiato dalle élites papaline che come il Marchese del Grillo gli hanno sempre sbattuto in faccia il loro «io so’ io, e voi……». Aggrappato per secoli alla vox populi di Pasquino, ha tuttavia sempre fatto una paura del diavolo a quel potere che a sua volta ha sempre saputo di essere semmai da esso temuto, mai sostenuto, stimato né tantomeno amato.
Insomma, A Piazza San Giovanni ci vai se vuoi battere le mani a Luciano Lama e a Enrico Berlinguer, o in epoca più recente a Matteo Salvini ed a Giorgia Meloni. Se vuoi invece andare a gridare il tuo VAFFA a chicchessia, vai a Piazza del Popolo. Anche perché nel frattempo Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono eclissati, spariti nel mare magno e paludoso della politica asservita alla farmaceutica che da due anni a questa parte il popolo l’ha lasciato solo, alle prese con proclami e ordinanze idiote e vessatorie che non servono a guarire un solo infetto, ma in compenso sono efficacissime a mettere in miseria tutti, sani e malati, vaccinati e non, pubblici o privati, sinistri e destri, italiani, comunitari ed extracomunitari.
Succede dunque che dopo settimane di manifestazioni non autorizzate, flash mobs, adunate e cortei aventi come unico e sempre più prepotente comune denominatore il rifiuto del green pass, la nuova carta verde ideata dal governo italiano che a differenza di quella americana non serve a concedere la cittadinanza ma piuttosto a toglierla, il popolo si stanchi dei cortei del sabato pomeriggio in questa o quella città (che alla fine lasciano il tempo che trovano e vengono puntualmente ignorati o mistificati dall’informazione quasi tutta allineata all’establishment vaccinista).
C’è bisogno piuttosto di una grande manifestazione che dia il senso dei numeri reali. Non quattro gatti, o peggio ancora quattro fascisti. Ma centomila e più cittadini (a stare cauti, ma probabilmente molti di più) ammassati nella piazza dell’obelisco, a due passi dalle sedi storiche del potere politico che non può più ignorarli. Ma semmai può reagire come ha sempre fatto, e come Cossiga ai suoi tempi ha spiegato e chiarito una volta per tutte. Infiltrando, creando caos ad arte e – in nome della repubblica italiana, ci mancherebbe altro! – intimando a pacifici cittadini per di più inermi di sgombrare la piazza o altrimenti – come ai tempi del generale bombarolo Bava Beccaris – verrà ordinata la carica agli agenti in assetto antisommossa, che a quel punto saranno sguinzagliati e liberi di manganellare e storpiare chi vogliono.
Meglio se, come puntualmente succederà prima che il sole cali sulla Città Eterna, si tratta di donne e bambini. E’ il nove ottobre 2021, e le forze dell’ordine offrono al mondo lo spettacolo indegno, indecente, ignobile di strade in mano non a facinorosi fascisti come vorrebbe la cosiddetta narrazione ufficiale rilanciata come un tam tam da telegiornali e giornali sempre meno attendibili, ma ad una sbirraglia che a chi ha l’età sufficiente ricorda piuttosto quella dei colonnelli greci alla fine degli anni sessanta o dei generali cileni e argentini nel decennio successivo. Donne con la testa spaccata, ragazzi ridotti a mal partito pur non avendo in mano altro oggetto atto ad offendere che qualche cartello di protesta.
Ci sono sì quegli scalmanati di Forza Nuova che assaltano la sede della CGIL, stranamente aperta di sabato pomeriggio e lasciata senza difesa alcuna pur essendo stata in anticipo individuata come probabile obbiettivo di disordini. Ma questi fascisti così visibili al punto da eclissare i centomila e più cittadini che li circondano (almeno per i nostri media) paiono genuini come monete da tre euro. Sanno di poliziotto, di infiltrato, di provocatore, in una parola di Digos, l’altra parte dell’equazione di Cossiga. Qualcuno viene anche identificato. Il guaio per il potere contemporaneo è che ormai internet ha più ascolto dei TG, e soprattutto racconta le cose come stanno, come appaiono. Le parole, corrette o scorrette, non servono più.
L’Italia alle prese con l’eversione di matrice istituzionale, con le nuove trame nere riadattate al ventunesimo secolo, dai telefonini dei presenti va su tutti i telefonini, tablet, PC del mondo. In pochi minuti è chiaro a tutti che la questione non è più tra fascisti e tutori dell’ordine, ma tra tutori dell’ordine che si comportano da fascisti ed un popolo che manifesta secondo il suo sacrosanto diritto e mantenendo tuttavia ancora un rispetto per la legalità che la legge attuale italiana forse non merita più, al pari di chi pretende di farla valere.
A Milano quel giorno 9 ottobre in Piazza del Duomo ancora va a finire bene, senza troppi danni e troppe medicazioni d’urgenza. A Roma il sangue rimane sul selciato di Via del Corso, dove poliziotti che sembrano piuttosto una milizia privata ingaggiata dai nostri politici impediscono a qualunque forma di contestazione, soprattutto a quella democratica, di affacciarsi sulle piazze dove il grido NO GREEN PASS e i primi DRAGHI VAFFANCULO vorrebbero risuonare: Montecitorio, Palazzo Madama, e quel Quirinale che brilla per il suo silenzio più che mai assenteista e intollerabile nel momento in cui il popolo la cui Costituzione dovrebbe difendere viene martirizzato da bravacci che qualcuno si ostina ancora a chiamare “forze dell’ordine”.
Quella sera, in preda ad un disgusto comune a tanti, vaccinati e non, scrivo nei miei appunti: «Facile andare in assetto antisommossa contro gente inerme e disarmata, manganellando ragazzini ed anziani, tirando fumogeni addosso a mamme con il passeggino. Mi dispiace, ma questa non è polizia, queste non sono “forze dell’ordine”, e non hanno più la mia solidarietà.
Le immagini di Roma le abbiamo viste tutti e bene. Da una parte le armi e la violenza, dall’altra le bandiere italiane e la protesta incazzata ma pacifica contro il governo più fascista dal 1945.
Abbiamo visto le donne disporsi a scudo umano per fermare la brutalità degli uomini con i caschi blu, come fecero nel 1921 le compagne degli operai davanti alle squadracce fasciste.
Abbiamo visto tutto, e credo che la fine del governo Draghi sia cominciata stasera, in via del Corso a Roma.
Caporetto in mondovisione della polizia italiana. Due immagini su tutte: la donna poliziotto che prende a calci un ragazzino steso a terra, il celerino in maglietta bianca che manganella delle ragazze e alla fine ne lascia una a terra immobile, quella con l’impermeabile giallo.
Chi ha un po’d’età e di memoria come me converrà che certe cose le abbiamo viste fare soltanto alla polizia di Pinochet. A Bolzaneto, a confronto, fu una bravata di reclute un po’ troppo esuberanti.
A questo punto l’obbiettivo più che fermare il green pass è fermare il boia Draghi.».
Mentre si contano i cittadini feriti (ma non sui giornali né sui telegiornali, dove si continua a parlare di una peraltro inesistente ripresa dei contagi e di una fantomatica e preoccupante ripresa dell’eversione nera, vero Mattarella?) ed i diritti calpestati, si ha la sensazione che quella che è cominciata con idranti, fumogeni e manganelli in Piazza del Popolo a Roma sia una settimana decisiva per la libertà del popolo italiano.
Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore; come un amore con gelosia.
(Trieste, Umberto Saba)
In questa brutta storia che sembra riportata in scena attingendo ai nostri peggiori incubi di cittadini che non hanno mai capito se cinquanta o trenta anni fa hanno salvato la democrazia o se la sono vista sfilare di tasca con destrezza, Trieste entra quasi in punta di piedi dapprima, e poi con la prepotenza di chi sa di fare la cosa giusta, avendola tra l’altro già fatta in passato.
Le piazze non bastano, cittadini e famiglie inermi sembrano non avere scampo contro manganelli impugnati da chi non si fa scrupolo a storpiare e uccidere. A chi è capace di tirare un lacrimogeno contro un passeggino, o a spaccare il capo a ragazzine forse ancora neanche maggiorenni. A coloro che sanno di essere coperti da una sostanziale impunità giudiziaria (chiedere a famiglia Aldrovandi) o comunque burocratica (vedere atti parlamentari, segnatamente risposta del ministro Lamorgese ad interrogazione di Giorgia Meloni, la famosa dissertazione sul movimento ondulatorio delle camionette della polizia di stato), il diritto naturale dei popoli fa un baffo. L’unico diritto che conta, che sono addestrati ad esercitare senza se e senza ma, è quello del più forte, esercitato con le armi.
Da noi i gilet gialli non attecchiscono, e scene come quelle ormai d’abitudine nelle città francesi non sono ancora arrivate e c’è da auspicare che non ci sia bisogno che arrivino mai. Da noi il modello è quello di Gandhi, la resistenza passiva, la non-violenza. Ma intanto c’è bisogno di qualcuno che renda più credibile la protesta al cospetto di un potere politico che non è abituato ad essere messo in discussione. Mai e per nessun motivo.
Ci provano i camionisti, ma la categoria si rivela meno compatta del previsto. Ci provano i portuali, ed è subito un’onda sussultoria che fa traballare ben altro che le camionette della Lamorgese. I camalli di Genova a suo tempo hanno fatto cadere governi (chiedere a Fernando Tambroni) e sconsigliato celerini, che hanno piuttosto preferito prendersela con i ragazzini che occupavano la scuola Diaz a Bolzaneto con i loro pericolosissimi sacchi a pelo.
Ma sono quelli di Trieste a muoversi prima, e a sfondare clamorosamente. Due giorni dopo i fatti della capitale, nel capoluogo giuliano un corteo di popolo raggiunge numeri di partecipazione che gareggiano con quelli delle metropoli Roma e Milano. Un comunicato del Coordinamento dei portuali, emersi già da tempo come il gruppo più determinato e consapevole all’interno del movimento che si intitola al fatidico 15 ottobre (giorno in cui entra in vigore il decreto governativo che impone a tutti i lavoratori italiani il green pass), annuncia per quel giorno il blocco del porto stesso. La FISI, la federazione dei sindacati italiani ha indetto in concomitanza lo sciopero generale per i giorni dal 15 al 20, un fatto storico in un paese abituato agli scioperi pre-balneari e da fine settimana anticipato della CGIL.
Mentre i lavoratori di tutte le categorie si apprestano a scoprire cosa vuol dire fare sciopero sul serio e bloccare l’economia di un paese, i portuali triestini si impadroniscono della scena e bloccano intanto l’economia del porto più importante d’Europa, non soltanto d’Italia. Da qui passa la Via della Seta, il traffico mercantile più importante tra oriente ed occidente, nonché l’approvvigionamento petrolifero del colosso tedesco e di mezza Europa dell’est.
Il presidente dei portuali Zeno D’Agostino si dissocia, dimettendosi. Ma i duri del porto triestino hanno già pronto un nuovo leader pronto a prendere il megafono e la guida della protesta. Stefano Puzzer è un gruista, tra i mestieri del porto forse quello più delicato, richiede concentrazione, decisione, equilibrio, forza, precisione. E’ anche un sindacalista, uno di quelli che i compagni di lavoro sono abituati a stare a sentire, quando parla. Il suo messaggio è semplice: io mi sono vaccinato, potrei anche andare a lavorare tranquillamente, ma qui non c’è in gioco il vaccino, c’è in gioco la libertà non solo dei lavoratori ma di tutti i cittadini italiani.
Quando lui prende in mano il megafono per la prima volta, cominciano le Cinque Giornate di Trieste. Dopo le quali niente sarà più come prima.
Questo è il mio diario di quei giorni.
Ma quella faccia un po’ così
Quell’espressione un po’ così
Che abbiamo noi prima d’andare a Genova
(Genova per noi, Paolo Conte)
14 ottobre
Genova fu una delle prime città, insieme a Torino e Milano, ad entrare nel 1943 in un coraggiosissimo sciopero contro il regime fascista e la sua guerra mondiale. Fu anche una delle poche, insieme soprattutto a Napoli, ad insorgere da sola contro i nazifascisti prima che arrivassero gli Alleati, ed in sostanza a liberarsi da sola. Per questo motivo è Medaglia d’Oro della Resistenza.
Lo dico per coloro che ascoltano ancora i telegiornali di regime, quelli che raccontano di come il pericolo fascista sia Forza Nuova. Chiaramente un burattino manovrato dalla Digos e dai miliziani della Lamorgese, così come cinquant’anni fa lo erano Brigate Rosse e NAR, gli opposti e tragicamente fasulli estremismi. Per chi ci governa, chi lotta per l’abolizione del green pass è un “bandito”, così come lo erano ottant’anni fa i partigiani secondo i proclami dei tedeschi e di chi li fiancheggiava.
Due secoli prima della Liberazione, Genova si era affrancata da sola anche dal dominio austriaco con l’insurrezione che fece seguito al celebre sasso di Balilla. Lo dico per arrivare al punto che mi preme. A Genova sanno cosa vuol dire lottare per la libertà, a prezzo anche del proprio sangue. Per questo non mi sorprende affatto che accanto ai portuali di Trieste siano subito scesi in battaglia anche i portuali della Superba.
Cerchiamo dovunque, in tutta Italia, compresa la finora assenteista Firenze, di essere alla loro altezza. Dal 15 ottobre e giorni seguenti, ognuno lo capisce bene, dipende nientemeno che la nostra sopravvivenza.
Intanto, qualcuno anche tra i cosiddetti giuristi e perfino un vecchio arnese del sindacalismo come Cofferati avanza dubbi sulla legittimità dello sciopero generale.
E’ chiaro che il governo dice che lo sciopero è illegittimo. Cosa volete che vi dica, fate bene a scioperare e a farci rimangiare i nostri provvedimenti, già che ci siamo diteci quanti siete e vi prepariamo già da stasera il pranzo al sacco?
Smettiamola di fulminarci il cervello, è una “azione di lotta”, e come tutti gli scioperi sarà il suo esito a decidere se era legittimo o meno.
E smettiamola, per amor di Dio, di fare la rivoluzione con il permesso delle autorità. Qualcuno vedo che aspetta ancora le brioches di Maria Antonietta.
La prossima legittimità sarà stabilita da chi avrà vinto per strada, nei prossimi giorni.
15 ottobre
Padre Barry: Per ora hai perduto, ma potresti ancora vincere.
Terry: Cosa devo fare?
Padre Barry: Alzarti e camminare.
(Fronte del Porto, 1954)
Non ho più l’età per farmi troppe illusioni, ma questo che comincia potrebbe anche essere una specie di giorno della verità.
E’ una storia di uomini duri quella che comincia al porto di Trieste. Tutti i triestini lo sono, uomini e donne, in qualche modo. La loro storia li ha abituati ad esserlo, le tragedie e le difficoltà vissute in successione li hanno resi quello che sono adesso.
Il canto preso a prestito dallo stadio Nereo Rocco dove gioca la Triestina tutte le domeniche, La gente come noi non molla mai, sorprende l’Italia ed all’inizio fa forse un po’ anche sorridere. Diventerà in pochissimo tempo il canto della rivolta italiana. L’Inno di Mameli di questo nuovo risorgimento.
Insieme ad esso, la parola porto prende sempre più piede e visibilità in ogni tipo di narrazione. Tra i triestini, i portuali sono naturalmente i più duri e determinati, ed il porto è la loro casa, come ribadiranno più volte.
Nelle cronache della nostra tribolata repubblica la parola porto è già comparsa. Erano gli anni in cui i giudici coraggiosi Falcone e Borsellino provavano a ridare dignità alla nostra politica ed alla nostra vita civile combattendo la mafia a tutto campo, e la stessa Procura a cui appartenevano si rivoltava contro di loro boicottandoli. La magistratura di ogni ordine e grado che li lasciò soli ad affrontare il loro destino fu ribattezzata, con felice espressione, Porto delle nebbie, prendendo a prestito il titolo di un film noir francese degli anni trenta interpretato dal celebre Jean Gabin. Come al porto di Le Havre, alla Procura di Palermo e su su fino alla Cassazione si perdevano i contorni di tutto quanto, giusto o sbagliato, onesto o connivente, dalla parte della giustizia o mafioso. Di qui il nome, che stavolta non pare però attagliarsi all’attualità. Stavolta è tutto chiaro, ed è il caso di scomodare Fronte del Porto, storia di lotta sindacale e di riscatto dei lavoratori interpretata da Marlon Brando, a cui in certi momenti il nuovo eroe popolare Stefano Puzzer sembra quasi ispirarsi negli atteggiamenti e nella essenziale ma efficace loquacità.
La battaglia dei triestini, portuali e non, diventa col passare delle ore la battaglia di tutti gli italiani liberi. Ed il suo luogo diventa dunque il Fronte del Porto.
FRONTE DEL PORTO
Giorno di protesta n. 1
Tutti gli italiani, a qualunque partito appartengano, sono e saranno sempre strettamente uniti e solidali, con il nome di Trieste scolpito indelebilmente nel cuore.
(Cesare Merzagora)
La stampa internazionale racconta di un’Italia di cui una buona percentuale di italiani neanche si accorge o gli importa di vivere.
Intanto, azzardo un pronostico a mio giudizio facile, anche se i suoi sviluppi si dimostreranno controversi.
Da Trieste passa la metà dell’approvvigionamento petrolifero della Germania e dell’Europa centrale. Quanto dura Draghi?
Stai a vedere che ci avevo preso, i poteri forti alla fine saranno i nostri più validi alleati.
Il fatto è che il blocco del porto di Trieste, più ancora che degli altri nostri scali marittimi a cominciare da quello di Genova, non ce lo possiamo permettere. Non se lo può permettere nessuno, in Europa e in Cina.
Leggenda vuole che Trieste, dopo la sconfitta italiana in guerra e l’amministrazione controllata dagli Alleati fino al 1954, sia stata restituita all’Italia soltanto amministrativamente, appunto, in realtà essendo di diritto un Territorio Libero. La realtà è diversa, Trieste ed il suo porto sono italiani, ma in base al trattato di pace l’Italia deve assicurare a tutti i partners politici ed economici condizioni di funzionalità e di accesso estremamente efficienti ed agevolati. Germania e Unione Europea premono da subito sul governo italiano affinché risolva la situazione. Il governo italiano lo farà prontamente, ma a modo suo e di certo non nel senso auspicato dai cittadini.
FRONTE DEL PORTO
Giorno di protesta n. 2
La mia anima è a Trieste.
(James Joyce)
Ai varchi di Trieste registrate 10.000 persone ieri, stamattina già 1.000 con flusso in costante aumento. E’ attesa oggi nel capoluogo giuliano un’altra manifestazione, per il quinto sabato consecutivo. Previste 20.000 persone e forse anche di più.
A parte la Toscana, tagliata apparentemente fuori per propria indole dalle grandi correnti di protesta dell’Italia contemporanea, sono attesi numeri importanti anche nel resto d’Italia.
Mezza Europa è come detto preoccupata per il mancato transito delle merci da Trieste, a cominciare dal petrolio tedesco. Giorni contati per il bancario fascista?
La RAI informa che è possibile seguire gli eventi sul sito della BBC.
AGGIORNAMENTI DAL PORTO:
1) Varco portuale n. 4, sabato 16 ottobre 2021, ore 7:45.
«Durante la notte diverse centinaia di persone hanno mantenuto il presidio, molti portuali e molte persone venute a supportarle, da Trieste e dal Friuli Venezia Giulia e da molte altre regioni italiane. Continuano ad arrivare alla spicciolata auto e furgoni con persone che vengono a supportare lo sciopero. Il parcheggio antistante l’ingresso del varco si sta riempendo di mezzi, auto camper e furgoni. Sono stati allestiti diversi punti di ristoro che offrono bevande, snack e anche pasti. La solidarietà dei triestini è davvero esemplare. Passano cittadini che scaricano ogni genere di prodotto alimentare e non che possa essere utile. Già appostate molte tv per continuare la loro narrazione di menzogne. Dicono che le operazioni di porto continuano quando invece il porto sostanzialmente é fermo. Forse ci può essere un impiegato dentro qualche ufficio che fa dei timbri sui fogli! Ma le loro menzogne avranno vita molto corta. Trieste c’è, il porto c’è e da tutte le regioni stanno rispondendo. Il fronte è qui.»
@nogreenpass_official
HASHTAG PER I TRIESTINI: #vivalaepobon
2) «Buongiorno, sono l’admin del gruppo fb NO GREEN PASS TRIESTE e vi chiediamo aiuto! le condivisioni dei video hanno già fatto il loro lavoro perché sono arrivate fino in America… è l’ora di salire in macchina o in treno e prendere un biglietto per Trieste o per il porto più vicino dove c’è uno sciopero… è arrivato il momento di unire le forze e accantonare tutte le cose che potrebbero dividerci… politica, etnia, religione, squadre… perché stiamo combattendo tutti per lo stesso scopo, stiamo giocando la stessa partita e solo uniti potremmo vincerla… quindi di nuovo lasciate il telefono nelle vostre tasche e andate al porto! Portate viveri, coperte, tende, vestitevi bene perché a Trieste fa freddo, fa freddo, fa freddo, ve l’ho già detto che fa freddo? Fa freddo e c’è gente che ha fatto la notte con i portuali… ORA C’È BISOGNO DI TUTTO VOI !!!!! Ieri al varco 4 del porto ho conosciuto gente di Como e Torino, nei prossimi giorni arrivano persone da Lucca (Toscana) e dall’Abruzzo… qui troverete ospitalità, per chi è in difficoltà economica ci contatti e cercheremo di trovare una soluzione… sappiate che al porto troverete pizza, focacce e birra! Birra? Si perché noi Triestini abbiamo una reputazione da difendere!
Vi aspettiamo numerosi. Condividetelo a palla.»
A Roma intanto la sinistra non più di lotta ma soltanto di governo sfila contro tutti i fascismi. Non merita più di un titolo di sintesi:
La CGIL a Roma, i lavoratori a Trieste
Nella notte però al Fronte del porto triestino succede qualcosa di strano. Esce un comunicato dei portuali che dà la sensazione di un improvviso ammorbidimento, di un rinvio, di una smobilitazione da parte di chi non te la saresti mai aspettata: la gente che non molla mai comunica di accontentarsi di una prima vittoria costituita dal ricevimento che la delegazione dei portuali avrà al Senato a Roma il successivo 30 ottobre. Un po’ poco. E fino ad allora? Tutti a casa? E Viva l’A e po’ bon?
Sembra esserci un improvviso vuoto di leadesrship, una evidente mancanza di strategia. Sembra che la vecchia tecnica del potere italiano dai tempi di Masaniello sia entrata in gioco nuovamente e con successo: offri qualcosa ai capi e la rivoluzione si sbanda.
Non è così, ovviamente, anche se quella notte tra il 16 ed il 17 il porto sembra tornato quello delle solite nebbie italiane.
Ci vuole l’alba, ed un nuovo comunicato dei portuali, affinché le nebbie si diradino e tutto torni ad assumere dei contorni riconoscibili. Stefano Puzzer riprende il megafono, e spiega a tutti che la lotta continua e non ci saranno compromessi.
FRONTE DEL PORTO
GIORNO DI PROTESTA N. 3
«[…] fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno. […] In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito… […] Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. […] Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. […] Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano. […] »
(Francesco Cossiga)
I portuali hanno aggiustato il tiro, continuano fino al 20.
Qualcuno “si era espresso male”, o “aveva capito male”.
In compenso continua anche la polizia. Sono come i vigili urbani, quando ci sono loro succede sempre casino. A Milano sono botte da orbi, anche senza Forza Nuova e assalti alla CGIL. Stavolta Piazza del Duomo viene interdetta. Cittadini inermi assaggiano nuovamente il manganello dei celerini. E’ la risposta della Lamorgese alla interrogazione della Meloni?
Mattarella ha aperto le porte dell’inferno al Quirinale. E – absit iniuria verbis – ne è uscita la polizia. Ma al momento l’effetto è controproducente, al grido di Trieste chiama, le altre città d’Italia rispondono, le piazze italiane si cominciano a mobilitare. Torino, Genova e via via tutti gli altri capoluoghi cominciano a fare sentire la propria voce.
A Trieste, i poliziotti di servizio al porto accettano le vettovaglie dei manifestanti e li rassicurano sulle proprie intenzioni. Fanno sapere di non avere ordini di far male a nessuno né di intervenire in alcun modo, e che “a Roma ci sono state altre dinamiche”. C’è da crederci?
Comincia una notte importante. Si diffondono voci contraddittorie. Secondo alcuni, il governo ha minacciato il Coordinamento di Trieste intimando lo sgombero del porto entro l’indomani, lunedi 18 ottobre. Ecco la ragione dei comunicati in successione, la lotta che prima va in pausa e poi riprende senza compromessi, la leadership che sembra sparita e poi ritorna sulla scena imperiosa. La traccia di momenti di discussione anche accesa.
Qualunque cosa sia successa davvero quella notte, la mattina seguente gli uomini del porto appaiono ricompattati, più determinati che mai. E cominciano a ricevere aiuti importanti, ed in qualche caso inattesi.
La sera prima è entrata in sciopero gemellato Ravenna, mentre a Torino monsignor Viganò ha pronunciato parole di sostegno, facendo capire che la Chiesa (quella che conta davvero, non quella che fa mostra di seguire Bergoglio) sta abbandonando il campo governativo per passare in quello del popolo.
Si è mobilitato il Veneto a sostegno di Trieste, e molti già stanotte andranno a fare massa critica in Venezia Giulia per sconsigliare alle autorità di forzare la situazione. La manifestazione dei rossi a Roma (in mezzo a cui campeggia la bandiera della vecchia Unione Sovietica, a proposito di democrazia) è stata un flop. Gli occhi di tutta Italia, così come le telecamere delle tv di tutto il mondo, sono rivolti alle rive triestine.
È il momento di crederci e di stringere i denti. Resisti Trieste, l’Italia s’è desta e sta arrivando.
Secondo i media mainstream, tutti nel paese sembrano presi dalle elezioni amministrative. Pare che la Lamorgese sappia già chi ha vinto prima ancora dello scrutinio, e per qualche minuto pubblica addirittura i risultati sul sito del Viminale. E’ una simulazione, si giustificherà poi. In compenso, Prodi sa addirittura quanto durerà il green pass. Dice: “Finché serve”.
Considerato che non serve a niente, ci sono dunque buone prospettive.
FRONTE DEL PORTO
GIORNO DI PROTESTA N. 4
«Noi procederemo fino alla fine. Noi combatteremo in Francia, noi combatteremo sui mari e sugli oceani, noi combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria. Noi difenderemo la nostra Isola, a qualunque costo. Noi combatteremo sulle spiagge, noi combatteremo nei luoghi di sbarco, noi combatteremo sui campi e sulle strade, noi combatteremo sulle colline; noi non ci arrenderemo mai».
(Winston Churchill)
Sono le ore 9,30 circa del mattino quando la polizia carica i portuali. Il delegato di pubblica sicurezza come ai vecchi tempi si mette la fascia tricolore e intima lo sgombero del porto, sempre in nome della legge e della repubblica. Non esistono più né legge né repubblica quando le camionette dei celerini aprono gli idranti ad alzo zero sulla folla dei cittadini che al delegato con la fascia tricolore hanno risposto picche, tuttavia senza muovere un muscolo né un sopracciglio per legittimare le azioni di chi vorrebbe trattarli come pericolosi sediziosi.
Grazie ai soliti telefonini, il mondo viene messo al corrente di tutto. La gente comune, portuali e cittadini, infradiciata e poi anche manganellata. Il lacrimogeno tirato, anche qui come a Roma, contro un passeggino. Stai a vedere che i pericolosi sovversivi del nuovo millennio sono i bambini? Un altro lacrimogeno atterra nel cortile di una scuola elementare vicina al porto. Il comunicato stampa della Questura parlerà di adiacenza e non di interno della scuola, un ridicolo distinguo a cui farà eco quello della ministro Lamorgese che in aula a Montecitorio risponderà finalmente all’interrogazione Meloni lanciando la celebre teoria dell’onda sussultoria della camionetta della polizia verificata dall’agente infiltrato e poi beccato dai manifestanti.
Ma c’è poco da ridere, in mondovisione scorrono le immagini – a tratti anche drammatiche – di un’Italietta forte con i deboli e debole con i forti, con la camicia nera che fa capolino sotto alle divise e agli abiti d’ordinanza, di cui credevamo di aver smesso di doverci vergognare dopo il 1945, e che invece riaffiora sempre a scadenze regolari e mai casuali. Vent’anni dopo Bolzaneto, la polizia di stato si rende ancora una volta responsabile di azioni e comportamenti che fanno chiedere all’opinione pubblica se sia il caso di mantenere ancora tra le forze dell’ordine un corpo così screditato.
«Cazzo, ce li stanno a ritira’ indietro!». La voce del coatto romano in “divisa” da agente provocatore che si lamenta dei lacrimogeni ribattuti indietro dai manifestanti è l’immagine più fedele della attuale polizia italiana.
I portuali devono arretrate sotto le cannonate d’acqua e i colpi di manganello. Seguono momenti concitati, triestini in giubbotto giallo, quello dei lavoratori del porto, e in abiti civili che cercano per le strade della loro città volti amici e compagni di lotta, e qualche leader che dia indicazioni per reindirizzare ciò che resta di una protesta democratica trattata con metodi sudamericani o da sudest asiatico.
Alla fine, il Coordinamento 15 ottobre, come ormai ha preso a chiamarsi il Fronte costretto a lasciare il porto manu militari, si ritrova in Piazza dell’Unità Italiana. Ritrova Stefano Puzzer di cui si erano perse momentaneamente le tracce durante le fasi più violente dello sgombero, ritrova i poliziotti schierati a difesa dei palazzi del potere, soprattutto quella Prefettura ai piani alti della quale Puzzer e gli altri leader del movimento vengono convocati per stabilire i nuovi termini della contesa.
La parola d’ordine è «riprendiamoci, e poi stasera ritorniamo al porto». La polizia lo impedirà, ovviamente, ma in quel momento in cui tutto sembrava perduto lo slogan è più che sufficiente a ricompattare e rincuorare i ranghi, e a dare tempo alla gente di Trieste di raggiungere in piazza i suoi concittadini fradici, malmenati, pieni di una rabbia che non trova sfogo. Ma ancora in piedi. Ancora disposti a combattere.
Fa il giro del mondo la foto dell’anziano portuale inondato d’acqua mentre se ne sta seduto a terra davanti alla polizia che si prepara a caricarlo, una foto che fa il paio idealmente con quelle storiche di Tienanmen 1989, di Praga 1968, di tante altre rivolte popolari soffocate brutalmente da un potere che in fondo è sempre lo stesso dappertutto. Si diffonde anche la foto della donna incinta che perde sangue dalla testa, segno evidente della manganellata appena ricevuta. E quella della donna che coraggiosamente sfida il poliziotto con la visiera abbassata appoggiandogli il volto contro e guardandolo negli occhi.
Le foto sono tante, accomunate tutte dall’amarezza. La stessa amarezza che pervade le mie riflessioni, quel pomeriggio. Si è rotto molto di più che qualche testa, in questi giorni di violenza fuori tempo e fuori contesto.
Non portate la gente a pensare che con la non-violenza (da una parte sola) non si va da nessuna parte. Non troverete sempre Gandhi ai varchi dei porti o nelle piazze. Potrebbe arrivare anche il giorno in cui trenta o quaranta dei vostri energumeni vestiti da marziani e con meno scrupoli di una bestia feroce non basteranno a contenere una folla esasperata da chi vi dà gli ordini e inferocita dalle vostre aggressioni a gente finora inerme.
Quel giorno potrebbe toccare a qualcuno di voi di rimanere a terra. Ricordatevi allora che ve lo siete ampiamente meritato. Non avrete più la solidarietà di nessuno. Il rispetto lo avete già perso. Voi siete una polizia di stampo fascista. Gente che ha venduto onore e dignità per trenta miserabili denari.
«VE PAGHEMO NOI, VENDUTI», grida la gente della piazza in faccia ai poliziotti radunati davanti all’ingresso della prefettura. Alcuni di loro vengono dal porto, dove hanno combinato quello che hanno combinato.
Quella sera, chiudo la lunga diretta testuale senza sapere ancora com’è andata in Prefettura, se i portuali si stanno davvero preparando a tornare al porto, se la gente – proveniente anche da altre parti del nordest e d’Italia – sta arrivando ad affiancarli.
Il Prefetto – dicono – ha preso tempo. Sarà un’altra lunga notte. E domani sarà un’altra lunga giornata.
L’opinione pubblica internazionale ha visto tutto, ed il governo più fascista dal 1945 ad oggi ha i giorni contati. Anche i manganellatori di donne, vecchi e bambini si spera che abbiano i giorni contati. Uno stato di diritto, se il nostro lo è ancora, non può più tollerarli.
Buonanotte Trieste. Svegliati Italia.
FRONTE DEL PORTO
GIORNO DI PROTESTA N. 5
E viva l’A e po’ bon
xe el vecio moto triestin
che l’A vadi ben, che l’A vadi mal,
sempre alegri, mai pasion
viva l’A e po’ bon.
(Canzone popolare triestina)
La mattina dopo si apre con le immagini del porto di Ancona, dove va in scena la forma di protesta più geniale degli ultimi cinquant’anni. I portuali non bloccano nulla, si limitano ad andare avanti e indietro sulle strisce pedonali senza fermarsi mai, impedendo di fatto agli autoveicoli che devono dar loro precedenza di accedere al porto. A Genova sono più prosaici e si preparano a loro volta ad essere caricati, diffidando dei carabinieri di servizio che promettono il contrario. Saranno smentiti, i carabinieri, due giorni dopo, allorché la Questura locale diramerà il solito ordine: sgombrare con la forza la manifestazione non autorizzata.
Perché il popolo, nell’anno di grazia 2021 in Italia, per protestare dev’essere autorizzato. Se non lo è – e non lo è quasi mai – oltre al green pass si becca anche le botte.
Sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo i titoli principali sono riservati agli italiani che si ribellano contro il mandatory (obbligatorio) green pass imposto – unico paese al mondo tra quelli cosiddetti avanzati – ai lavoratori per poter lavorare. Ampio risalto anche alla risposta data loro dal governo e dalla polizia.
Trieste chiama, e non sono più solo le città d’Italia a rispondere. Attestati di solidarietà arrivano dalla Francia, dove i gilet jaunes si preparano ad un’altra stagione di confronto con i rispettivi flic (in modo tradizionalmente assai meno gandhiano), dalla Nuova Zelanda che guarda esterrefatta alla improvvisa follia della vicina Australia, ai paesi europei che già guardano preoccupati ai rispettivi governi ed alle loro tentazioni simil autoritarie, agli Stati Uniti dove, per dirne una, a New York il sindaco De Blasio tradisce le sue origini italiane emulando il nostro Brunetta ed imponendo la carta verde non più agli aspiranti immigrati ma ai suoi stessi lavoratori.
Forte del sostegno che sta ricevendo un po’ da ogni parte del globo, il Coordinamento 15 ottobre comunque rialza la testa e promette lotta fino alla fine. Stefano Puzzer arringa la folla: «Sono vaccinato, potevo starmene a lavorare in santa pace. Invece no, questo schifo del vaccino e del green pass obbligatori deve finire. Per tutti».
Quella sera, chiudo con una nota di speranza:
Il sole tramonta sulla piazza di Trieste intitolata all’unità d’Italia. È un segno, dice qualcuno. Forse sì, il tramonto di un modo di governare fermo al Re Bomba di Napoli e a Bava Beccaris. Alle trame nere, ai servizi deviati, ai ministri della malavita, ai carrieristi che si mettono la fascia tricolore e ordinano la carica contro donne e bambini. Il tramonto del governo Draghi, dell’osceno Brunetta, della Lamorgese più gradevole a vedersi che intelligente, del sinistro Mattarella, che ogni notte sembra uscire da un sepolcro della Transilvania, prima di cibarsi del sangue dei suoi concittadini. È il tramonto di due vigliacchetti traditori, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che in questa piazza non si sono affacciati neanche per cinque minuti.
È l’alba di una nuova Italia, unita come vuole il nome di questa piazza che i triestini non scelgono mai a caso. Qui arrivarono due volte i bersaglieri, a portare libertà, indipendenza, riunione alla patria, il 3 novembre 1918 ed il 26 ottobre 1954. Stavolta sono arrivati i portuali, nel momento in cui sembrava tutto perduto, sotto i colpi della violenza del governo e della sua sbirraglia infame. Qui si sono ricompattati, hanno serrato i ranghi, hanno rilanciato la sfida al governo dei venduti alle case farmaceutiche, non votato da nessuno ma arrogantemente sostenuto da chi – come purtroppo anche nostri concittadini, nostri parenti, nostri amici d’infanzia – nega ad altri italiani la libertà di pensiero e azione per cui sono morti i nonni di tutti.
Da qui riparte il Movimento 15 ottobre. I portuali hanno conquistato l’opinione pubblica dell’Italia, che finalmente si sta destando, e del mondo, costretto ieri a provare di nuovo disgusto per l’Italia in camicia nera come 80 anni fa.
Trieste chiama, tutte le città d’Italia stanno rispondendo. L’unità dei porti sta diventando l’unità del paese, fatta finalmente dal popolo, come volevano i costituenti. Che ci dettero un punto di partenza, non di arrivo.
Siamo scesi in piazza come i francesi, per la prima volta, e come i francesi otterremo prima o poi il risultato storico di costringere alla resa un governo autoritario che rischiava di diventare una dittatura.
Mentre il sole tramonta a Trieste, a Montecitorio a Roma il parlamento redivivo interroga l’indegna Lamorgese, chiedendole conto della vergogna presentata al mondo intero prima in via del Corso a Roma e poi al varco 4 del porto giuliano. Durante il dibattito, una deputata dei 5 Stelle (maggioranza di governo, da tre governi) si lascia sfuggire la frase chiave: “chiedo di sapere cosa intende fare il governo se i dati sanitari continuano ad essere buoni come adesso”.
Vi faccio un pronostico che è una promessa, per chi ha la bontà di ascoltarmi e per chi vuole cominciare a farlo adesso, non è mai troppo tardi. Questo è il segnale della ritirata del regime, tra poco il green pass non ci sarà più. Il resto seguirà. L’emergenza è finita, quella sanitaria. Occupiamoci adesso di quella democratica.
Il tramonto sulle rive di Trieste è rossastro. Come dice il detto? Rosso di sera…,
Dice qualche triestino: da quel molo antistante la piazza dove Trieste si riunisce sempre e dove rinasce l’Italia in questi giorni, per ben due volte è arrivata la libertà per questa città. Era tempo che Trieste restituisse il favore alla patria.
L’ha fatto, con gli interessi. La gente come loro non ha mai mollato, attraverso le tragedie più dolorose. Non ha mollato neanche stavolta, e ha insegnato a non farlo a tutti gli italiani.
Stasera mi sento di nuovo italiano, e triestino nell’anima.
Stasera, soprattutto, mi sento libero.
VIVA L’ITALIA, VIVA TRIESTE. VIVA IL NOSTRO FUTURO CHE VALE DI NUOVO LA PENA DI ESSERE VISSUTO.
In fondo, se addirittura un prete, Don Floriano, può permettersi di dire sulla pubblica piazza che il suo principale, il Papa, ha smarrito la retta via schierandosi a sostegno del vaccino obbligatorio, qualcosa forse sta cambiando veramente.
FRONTE DEL PORTO
GIORNO DI PROTESTA N. 6
«Non è la fine. Non è neanche l’inizio della fine. Ma è, forse, la fine dell’inizio»
(Winston Churchill)
Qualcosa si è svegliato se addirittura Firenze, la bottegaia Firenze così ossequiosa all’establishment di sinistra che ne possiede le chiavi da tempo, è scesa in piazza. Quella della Signoria dove va in scena il flash mob musicale di Andrea Colombini, il direttore d’orchestra della protesta anti green pass. E’ una manifestazione non autorizzata anche questa, a stretto rigore, ma i tutori dell’ordine stanno imparando a non essere troppo sofistici in merito. La gente canta a squarciagola Fratelli d’Italia, le bandiere tricolori sono in mano ai civili, le fasce tricolori che qualche questurino insiste ad indossare non suscitano più ormai la stessa simpatia.
Pasolini scriveva cinquant’anni fa a titolo di solidarietà con i poliziotti che affrontavano i primi cortei studenteschi. A Valle Giulia nel 1967 andò in scena con un anno d’anticipo il 1968, e furono botte da orbi. Il comunista eretico Pasolini individuò allora correttamente nei poliziotti mandati contro gli studenti i veri proletari, costretti a indossare armature da robot avveniristiche per miseri stipendi, mentre i figli di papà viziati e pericolosi erano gli altri, quelli che allora rispondevano ai manganelli con le molotov, lasciando spesso a terra qualche tutore dell’ordine.
Non è più così, quella solidarietà non c’é e non può esserci più. Adesso sono le donne ed i ragazzi a rimanere in terra, e non c’è analisi proveniente da nessuna parte politica che possa giustificare una cosa del genere. Il paradosso storico è che é il PD, l’erede del PCI, in prima linea adesso a chiedere provvedimenti liberticidi e sgomberi forzosi di piazze e strade ai danni di quel popolo che una volta pretendeva fosse il suo elettorato.
Nel frattempo è stato sgomberato anche il porto di Genova. Mentre siamo qui a tentare di ragionare, chi il cervello per ragionare non ce l’ha prosegue nella sua marcia apparentemente trionfale. Verso il nulla.
«Non ci lasceremo processare nelle piazze», rispose Aldo Moro il 7 marzo 1977 al parlamento che invocava a gran voce provvedimenti drastici nei confronti degli uomini dell’establishment democristiano di allora che erano palesemente invischiati nello scandalo Lockeed, il primo grande scandalo di corruzione politica della storia della prima repubblica.
Nel paese le piazze ribollivano quasi quotidianamente di contestazione, sotto la spinta delle sinistre soprattutto extraparlamentari che ormai avevano spostato il baricentro della lotta politica dalle aule parlamentari ai luoghi pubblici dei cittadini.
Moro fece un discorso che era destinato a dettare un canone immodificabile per i successivi cinquant’anni, e che si riassume nella frase suddetta. Il potere italiano non si è mai fatto mettere in discussione dal popolo. Quel giorno, l’uomo che più di ogni altro aveva contribuito a stabilire i limiti invalicabili tra partecipazione democratica dei cittadini ed esercizio effettivo del potere politico, chiarì bene una volta per tutte come avrebbero funzionato da allora in poi la prima repubblica ed anche le seguenti.
Cinquant’anni dopo, Mario Draghi e Luciana Lamorgese riprendono lo stesso paradigma e se ne servono – a modo loro e con il proprio stile – per risolvere una nuova contesa della casta con il popolo. Stavolta i cittadini mostrano un piglio finora sconosciuto: fanno a meno di capipopolo politici ed affollano piazze, scali portuali e infrastrutture con una determinazione ed una consapevolezza che non sapevamo essere parte del DNA italiano. Si inchinano a noi perfino i francesi, che finora ci hanno tenuti a ripetizione con condiscendenza nei corsi serali di democrazia.
Siamo diventati un Popolo con la P maiuscola, e non lo eravamo più dal tempo dei Gracchi. Ma il Potere è fermo a Moro buonanima. Non si fa processare, da nessuna parte, mai. Non si fa sfilare la sedia da sotto al sedere. Risponde come ha sempre fatto, aprendo idranti, sgombrando piazze e sit-in, manganellando e tirando fumogeni dentro scuole elementari o addosso a passeggini ingenuamente messi avanti da mamme che mai pensavano che uomini apparentemente come i loro mariti potessero dimostrarsi dei figli di puttana di tal fatta.
Ancora una volta è un coatto romano a dare l’immagine più fedele del poliziotto, del celerino, del questurino, di tutti coloro che volenti o nolenti da cinquant’anni associamo al potere più infame, i suoi cani da guardia che mordono e sbavano rabbia infetta per mettersi in tasca due piotte. Perché per due piotte un poliziotto non ci pensa su due volte e ti manda all’ospedale, se gli passi davanti nel momento che la Bava Beccaris Lamorgese ha ordinato la carica. E poi magari, come successe ai familiari di Aldrovandi, ti fa anche (a te babbo e mamma distrutti dal dolore) il segno del dito medio alzato quando il magistrato compiacente legge la sentenza che lo assolve.
Il coatto romano dice chiaramente «vaffanculo» al camallo genovese che non vuole arretrare mentre parte la carica di chi aveva fatto finta «di non essere come quelli di Trieste». Sono tutti uguali, chi fa il “bravaccio” di mestiere perché nella vita non ha saputo trovarsi altro da fare, quando parte l’ordine di caricare impugna il manganello e va a sterminare senza muovere un muscolo del volto. Di quei volti che si vedono bene sotto le visiere dei caschi anti-sommossa. Se non facessero paura, farebbero ribrezzo.
Questi soggetti stanno fra noi e i nostri diritti, e non c’é da illudersi che venerdi o sabato, a Trieste o in ogni dove, saranno sostituiti da negoziatori dotati di fair play e senso democratico. Il PD che occupa indegnamente maggioranze parlamentari e di governo (ma ringraziamo altri due emeriti figli di ……, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, se può continuare a farlo) è stato chiaro: ha chiesto apertamente al sindaco Dipiazza di sgombrare la piazza dell’Unità Italiana «con le buone o con le cattive». E al PD, si sa, non può dire di no nemmeno Draghi se vuole concludere la sua luciferina carriera al di là delle Porte dell’Inferno, al Quirinale.
A Roma stanno caricando gli studenti, nella centralissima via di Ripetta che è a due passi dalla Piazza del Popolo dove ancora non si è asciugato il sangue di donne e ragazzini versato il sabato precedente. Ho tanta paura che Gandhi ci abbia accompagnato bene fin qui, ma da qui in avanti dovremo inventarci qualcos’altro. Scrivevo ieri sera citando Churchill: “Non è la fine, e nemmeno l’inizio della fine, ma forse è la fine dell’inizio”. Il difficile, vuol dire, viene adesso.
Dice che a Genova sta arrivando gente da tutta Italia, e anche dalla Francia e dall’Europa. Stessa cosa a Trieste. Siamo di nuovo alle prese con piccoli e grandi emuli di Hitler. Non ci arrenderemo mai, ma sarà lunga e dura.
Noi siamo gente che non molla mai. Quella gente che alla fine si trova davanti al Palazzo d’Inverno. Al palazzo del potere. E deve decidere cosa fare, senza che nessuno possa darle certezza.
Perché, come diceva un mio illustre concittadino, di doman non ve n’é.
FRONTE DEL PORTO
GIORNO DI PROTESTA N. 7
O mia bela Madunina che te brillet de lontan
Tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan
Si vegni senza paura, num ve songaremm la man
Tucc el mond a l’è paes e semm d’accord
Ma Milan, l’è on gran Milan!
(Canzone popolare milanese)
Esce un altro comunicato controverso del Coordinamento 15 ottobre. Il giorno 23 arriva a Trieste il ministro dell’agricoltura, il triestino Patuanelli, per raccogliere le richieste dei manifestanti del porto a nome e per conto proprio e di tutti gli altri porti e piazze, e riportarle con sé a Roma, dove le deporrà sul tavolo del prossimo consiglio dei ministri del 26 ottobre. Nel frattempo, Puzzer invita la cittadinanza locale a restare a casa, e le altre cittadinanze che si stavano mobilitando per raggiungere Trieste a fare altrettanto. C’è il pericolo di infiltrazioni malintenzionate. Riecheggia un nome che credevamo di aver dimenticato: Black Bloc. Lo spettro è di nuovo quello del G8 di Genova di vent’anni fa. Lo spettro o lo spauracchio, agitato dai professionisti della tensione strategica della Digos.
Il Coordinamento sceglie di stare al gioco dei servizi. Non sapremo mai se ha fatto bene o male. Ma sapremo che, pur con Trieste ferma, si muove lo stesso il resto d’Italia. E come si muove……
La mattina del 23, mentre Trieste trattiene il respiro e Patuanelli ascolta, o sembra ascoltare, le richieste dei portuali che parlano di lotta fino all’abolizione finale per tutti di green pass e obbligo vaccinale, arrivano notizie contraddittorie. A Roma, come detto, la polizia ha caricato una scolaresca, difficilmente un’impresa che rimarrà nei libri di storia come la carica di cavalleria a Pastrengo. Più facile che ci rimanga l’approvazione da parte del parlamento europeo della mozione sollevata dal deputato di Fratelli d’Italia Sergio Berlato, che ha dichiarato il green pass adottato dal governo italiano assolutamente illegittimo dal punto di vista della compatibilità con la normativa europea ed i principi fondanti dell’Unione. In Italia intanto L’Istituto Superiore di Sanità ridimensiona la portata della pandemia Covid riducendo da 130.000 a circa 3.000 i morti effettivi a causa di essa. Come a dire, abbiamo scherzato, l’emergenza non c’è più, non c’è più, non c’è più, come la pancia di un celebre Carosello.
Di che stiamo parlando ancora?
Lo ricorda a tutti il popolo NO GREEN PASS nella notte del sabato, rinunciando a qualsiasi movida per andare a ingrossare le file del dissenso e trasformare l’Italia in una immensa manifestazione non autorizzata, mai così sentita. Un immenso, inarrestabile flash mob.
Il fatto che manchi proprio Trieste mi desta qualche perplessità. Quella sera mi appunto:
Le richieste del popolo sono state avanzate come meglio non si poteva. Il movimento di Trieste mi ricorda molto Solidarnosc, fatte le debite proporzioni, che arrivò alla vittoria epocale dopo aver percorso una lunga strada fatta di entusiasmo travolgente alternato a drammatiche repressioni.
Adesso la parola è al potere, che in Italia non rinuncia mai a se stesso di buon grado. Anzi, reagisce di norma rovinando e uccidendo.
È caduto il comunismo, cadrà anche il capitalismo assassino. Ma è una strada lunga e difficile e non illudiamoci che si concluda martedi prossimo.
Il regime dovrà cedere su green pass e obblighi vaccinali, ma lo farà all’italiana, in silenzio e ricorrendo ad espedienti. E magari dopo aver avvelenato Natale e dintorni a chissà quante altre famiglie.
La piazza non va abbandonata. Né a Trieste né altrove.
“Lottiamo per dare coraggio alle persone, al momento critico non si può dire loro: restate a casa”, dichiara Ugo Rossi del Movimento 3V Verità e Libertà, critico verso la leadership di Puzzer e le sue ultime scelte.
Poche ore dopo, Milano insorge, a ridare finalmente entusiasmo e speranza a tutti.
MILAN L’È UN GRAN MILAN
Trieste chiama, e peccato che non ci ha creduto lei stessa. La manifestazione che tutti gli italiani liberi aspettavano per oggi la fa in serata Milano. Repubblica ed il Corriere parlano di ottomila scarsi, con la solita presenza di neofascisti. Peccato che le immagini mostrino al contrario un popolo intero, pacifico, determinato, sorridente che sfila interminabile, circa 20 minuti trascorrono prima che la coda del corteo raggiunga la testa.
Peccato Trieste, grazie Milano. Grazie popolo che mandi affanculo Draghi e la ridicola Lamorgese, e soprattutto quegli uomini in divisa che stasera se ne stanno zitti e fermi in un angolino. Non è il caso che tentino una ennesima bravata delle loro.
«Vi facciamo impazzire», grida ai poliziotti la testa del corteo cambiando continuamente direzione. Ma soprattutto impazzirà qualcuno a Roma, nei palazzi del potere, mentre tra Corso Vittorio Emanuele e Corso Buenos Aires si dissolve il sogno del banchiere dagli occhi di ghiaccio e l’ennesima trama nera della Digos, che pensavano di strozzare anche questo moto di popolo con gli usuali sistemi da sbirraglia prerisorgimentale.
Credevamo che il popolo, quello italiano, fosse venuto meno ancora una volta, nel momento critico. Oggi è l’anniversario di Caporetto. Ma Milano si è ricordata delle sue Cinque Giornate, e ha raccolto da Trieste il testimone nel momento più difficile, mentre Patuanelli riportava a Roma le solite promesse vuote e nessun impegno concreto
GRAZIE MILANO. CI VOLEVA PROPRIO. Martedi in consiglio dei ministri sarà bene che Patuanelli riferisca per filo e per segno le promesse fatte ai portuali, e che il Drago smetta di sputare fuoco e si rassegni. Un popolo intero è troppo anche per lui, e per il suo laboratorio sociale che serve soltanto a creare altri mostri a sua immagine e somiglianza.
A Roma ci pensa Enrico Montesano a riportare la gente al Circo Massimo, non per festeggiare uno scudetto stavolta ma per far capire a quelli della politica che il popolo romano «Io so’ io, e voi…..» non se lo fa dire più.
Poco dopo, aggiungo:
TUTTE LE CITTÀ D’ITALIA SONO IN PIAZZA.
NON CI FERMANO PIÙ.
Ecco come è andata:
C’è il momento della prudenza e quello del coraggio. Nella vita servono entrambi, prima o dopo, ed è la vita stessa a proporcene l’occasione, insieme alla nostra indole, al nostro carattere.
Ieri servivano entrambi, all’Italia. La prudenza, giusta o sbagliata, dei portuali preoccupati di non trasformare Trieste nella Genova di vent’anni fa, e di presentare il loro, il nostro ‘cahier des doleances’ a quelli di Roma. Passaggio obbligato di questa crisi, malgrado il rischio reale per tutto il popolo di farsi prendere per il culo una volta di più dal suo illegittimo governo.
E il coraggio. Tornare in piazza, in tutte le piazze d’Italia. Meno, purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista, quella divenuta nei giorni passati più importante: Trieste. Ma se ci sono tutte le altre, quelle degli oltre cento capoluoghi di provincia del nostro paese, va bene così.
Serviva Milano, capace per quasi cinque ore di fare diventare matti i celerini e chi li comanda, e bastava lei a far capire che ormai non si tratta di una manifestazione spot, episodica, a cadenza settimanale, un flash mob. È una sollevazione di popolo, una riedizione delle Cinque Giornate con cui fu cacciato dai milanesi il primo oppressore della nostra storia moderna.
Serviva Roma, coraggiosa e sprezzante come solo i romani sanno essere, non importa quante botte hanno preso, di quanto sangue è lastricato il selciato delle strade requisite loro dalla politica. Il “vecchio” Montesano è capace di riempire la spianata del Circo Massimo come solo la Roma aveva saputo fare finora. Stavolta romanisti e laziali sono lì abbracciati insieme, a gridare NO GREEN PASS e DRAGHI VAFFANCULO, anche senza Venditti.
Servivano Firenze e la Toscana, “da secolare squallore restituite a nuova vita”. Non siamo più, o non lo siamo questa volta, una clientela di bottegai asserviti al PD ed alle sue malversazioni.
Serviva Bergamo, che non crede più a quei camion in fila come in un telefilm di X- Files. La magistratura, come suo solito, non caverà un ragno da un buco, ma i bergamaschi non hanno atteso e ieri si sono fatti meravigliosamente giustizia da soli. VAFFANCULO DRAGHI, te e chiunque ha voluto far credere che questa pandemia fosse qualcosa di diverso da un’influenza di stagione. Vi hanno sbugiardato l’ISS e l’ISTAT, voi e le vostre cartelle cliniche che a questo punto sappiamo essere state “addomesticate”. Vi abbandona anche il Comitato Tecnico Scientifico, alla fine anche Ippocrate si è vergognato della medicina contemporanea e non ci vuole mettere più né il nome né la faccia.
Trieste chiama, Milano risponde, Bergamo fa sentire la sua voce lì accanto a due passi.
Serviva Genova, di nuovo lei. Non solo i portuali, i camalli, ma tutta la città. Medaglia d’oro della Resistenza, quella ai fascisti veri, non quelli di Landini, la Superba ha già fatto cadere un governo. Era il 1960, Fernando Tambroni, peone democristiano come il Mattarella che oggi siede indegnamente al Quirinale sordo e tetragono ad ogni decenza politica e giuridica, fu incaricato di formare un governo di centrodestra, che contrastasse il vento progressista dell’apertura al PSI. Tambroni non trovò di meglio -a quindici anni soltanto dalla fine della guerra – che autorizzare il congresso nazionale del Movimento Sociale Italiano proprio nella città dove il Partito Nazionale Fascista da cui discendeva aveva sparato le ultime fucilate. Finì male per Tambroni, che ritornò nell’oblio (come auguriamo a Mattarella quanto prima) lasciando il posto ad un nuovo esecutivo che mise fine a giorni di disordini sfociati in rivolta aperta spostando il congresso da Genova ad altra località meno sensibile. A Genova col fascismo – quello vero, non quello ereditato e metabolizzato dal PCI-PD – non si è mai scherzato e non si scherza tutt’ora. I suoi portuali ieri erano a Trieste, a dare il loro contributo ai colleghi del posto, alle prese con un momento difficile della loro protesta. Non a caso, si va avanti senza compromessi. Si torna, anzi si resta in piazza.
Serviva tutta l’Italia, e l’Italia s’è desta, e ha risposto, grazie a Dio. Da ieri sera herr Draghi, il gauleiter nazista di una UE che si prepara a scaricarlo e a rinnegarlo, è alle prese con un paese per lui ormai ingovernabile.
Milano e tutte le altre città d’Italia stanno dimostrando che un pugno di bestie feroci e spietate in assetto anti-sommossa non bastano più a tenere soggiogato un popolo di milioni di cittadini che pretendono il ritorno alla vita normale.
Come dice Andrea Colombini, direttore d’orchestra della rivolta italiana che desta ammirazione in tutto il mondo, dalla Francia alla Nuova Zelanda: «che viviamo a fare se dobbiamo vivere così? Sospesi e senza stipendio, potremo almeno dire di essere VIVI.»
3.000 morti, perché tanti sono (senza calcolare quelli del vaccino, che rischiano alla fine di essere di più), meritano rispetto. Ma non il sacrificio dei diritti di sessanta milioni.
Diritti conquistati da chi non aveva paura di morire, a differenza degli appartenenti a questa generazione che non sopporta più di soffrire neanche per un’unghia incarnita.
GRAZIE A TUTTI, I PROSSIMI GIORNI SI REPLICA.
Già, i prossimi giorni….. Il tanto atteso consiglio dei ministri è già stato rinviato. Chissà, il premier Draghi è dovuto volare chissà dove per presenziare a chissà quale riunione di uno dei suoi gruppi ristretti. O forse, semplicemente se ne fotte.
Fa male. Il popolo italiano s’è svegliato. Lui potrebbe restare nella storia come un altro Tambroni, ancora più infimo del suo sodale Monti, liberticida e affamatore di qualche anno fa.
Intanto domattina, giorno di protesta n. 13, Trieste riparte. Il corteo si farà tutta la città. Che sia autorizzato o meno, francamente non se ne infischia più nessuno.
«Nella vita a volte è necessario saper lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza», disse una volta Sandro Pertini. Soprattutto se si tratta di Roberto.
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