Aveva neanche 17 anni il 10 giugno 1940 Santo Pelliccia, quando Mussolini dichiarò l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale e lui, come molti altri giovani, andò subito dopo a presentarsi volontario per il Regio Esercito che si stava mobilitando. Paracadutista della Folgore, il corpo d’elite costituito da pochi anni per essere impiegato nelle missioni di guerra aerea che la moderna scienza bellica aveva aggiunto a quelle tradizionali, aveva 19 anni compiuti da poco quando si trovò ad El Alamein, dove i parà italiani ebbero un ruolo di preminenza nello schieramento italo – tedesco che si trovò a reggere l’urto dell’Impero Britannico, determinato ad espellere l’Asse dal Nord Africa ed a scongiurare il ricongiungimento degli Afrika Korps di Rommel con il braccio settentrionale della tenaglia con cui la Wehrmacht tentava di sfondare a Stalingrado verso sud.
Come andò, lo sanno tutti. E’ scritto su una lapide che a tutt’oggi ad El Alamein testimonia di cosa successe in quei dieci giorni culminati nel 4 novembre 1942 (anniversario della vittoria nella Guerra Mondiale precedente) e cosa fecero i soldati che vi combatterono. Quale fu la sorte degli oltre 5.000 soldati della Folgore, di cui ne sopravvissero solo 300. E Santo Pelliccia era l’ultimo di costoro ancora tra noi per testimoniare a voce la sua storia. La nostra storia.
Mancò la fortuna, non il valore, si legge su quella lapide. «Dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore», disse dopo la battaglia Winston Churchill alla Camera dei Comuni celebrando la vittoria di Montgomery e dell’Ottava Armata britannica. I Tommies vittoriosi resero l’onore delle armi ai valorosi avversari quanto e più dell’alleato germanico, anche se il feldmaresciallo Rommel ebbe parole di grande ammirazione per i nostri parà e per tutti i soldati italiani che avevano venduto carissima la pelle ad El Alamein. «Il soldato tedesco ha stupito il mondo. Il soldato italiano ha stupito il soldato tedesco».
Appartengo a quella generazione che è stata l’ultima a servire in armi la nostra patria, prima che una delle tante sciagurate decisioni prese da governi divenuti espressione di forze politiche che tradizionalmente avevano eletto la loro patria altrove, in terra a noi allora nemica, abolisse il servizio militare di leva. Eravamo cittadini anche grazie al fatto di essere stati soldati. Adesso non siamo più niente, e aspettiamo di non avere più né patria né nazione. Ci manca poco, se quella gente ritorna al governo come sembra.
Appartengo all’ultima generazione che ha avuto consapevolezza di cosa fecero esattamente le precedenti, per lasciare a noi ragazzi fortunati – nati una ventina d’anni dopo la fine dell’armageddon che fu la Seconda Guerra Mondiale – un paese ed una vita decisamente migliori. Ho avuto la fortuna di incontrare insegnanti e maestri di vita che mi hanno raccontato quello che c’era da sapere, e dato l’esempio che dovevo avere. Ricordo in particolare un anziano signore, aveva l’età di Santo Pelliccia quando lo incontrai in casa di riposo, ed ancora l’energia ed il fascino occorrenti a tenermi una serata intera ad ascoltarlo mentre mi raccontava la Guerra d’Africa, da Tobruk ad El Alamein. Tempo che volò via, quattro ore per raccontarmi due anni. Poi quello che era successo prima, e quello che era successo dopo.
Appartengo all’ultima generazione in grado di capire che dramma fu la Seconda Guerra Mondiale per i nostri ragazzi allora di leva, i nostri babbi, i nostri nonni. La lacerazione tra il dovere da compiere ed il sentimento di cosa avrebbe potuto costare. Se al valore si fosse aggiunta la fortuna, Hitler avrebbe vinto quella guerra e adesso saremmo qui a fare altri discorsi, o non ci saremmo affatto. I ragazzi come Santo andarono semplicemente a fare ciò che sentivano di dover fare. Molti non tornarono a casa, e non seppero mai se avevano scelto la parte giusta. Non lo seppe nessuno, finché tutto non fu finito.
Noi ragazzi di mezzo secolo dopo sapevamo che era andata bene così, malgrado una sconfitta che costò moltissimo al nostro paese. E ringraziavamo di essere stati messi ai nostri giorni di fronte a scelte molto più semplici, moralmente e materialmente. Di sapere che la nostra patria corrispondeva finalmente ai nostri sentimenti, o così almeno credevamo. Di vivere in un mondo non meno pericoloso ma almeno più semplice nelle opzioni che offriva. Di dovere rispetto e gratitudine a chi era stato meno fortunato di noi, dispensandoci dal dover scoprire a nostra volta se saremmo stati altrettanto coraggiosi, in condizioni simili.
Tutto questo era Santo Pelliccia, e la sua generazione a cui era stato chiesto di essere composta da eroi. Perché a noi dopo non fosse più chiesto. Questa era la sua storia, e per chi non ha perso il senso delle sue radici e della sua comunità, anche la nostra storia.
Tutto questo non finirà con Santo Pelliccia, ma finirà con noi che l’abbiamo conosciuto ed ascoltato, sapendo di cosa raccontava. Cosa testimoniava presenziando a tutte le cerimonie militari e civili con la sua pluridecorata divisa che replicava quella con cui aveva combattuto ad El Alamein. Ai ragazzi di oggi non potremo trasmettere nulla, per loro non abbiamo fascino, ed i nostri valori non sono più merce appetibile. Tutti presi come sono da un’Europa che fa finta di essere quella di Altiero Spinelli ed in realtà si prepara a replicare quella di Adolf Hitler e di Joseph Stalin.
E allora, forse resteranno nel vento anche le nostre parole. In quel vento che dall’Africa lambisce le nostre coste, e che sospinge verso di loro ogni giorno i barconi che solcano il Mediterraneo, miserabili carrette del mare che trafficano soltanto schiavi.
Non è un buon motivo tuttavia per restare in silenzio. Arrivederci, Santo. Ora tocca a noi.
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