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Adriano Olivetti, una storia italiana

Su una di queste ho battuto a macchina la mia tesi di laurea. Sono talmente vecchio da essermi laureato poco prima che i computers conquistassero il mondo. Lettera 22, la punta di diamante della Olivetti S.p.A., prodotti per l’ufficio e macchine per scrivere.

Per una stagione troppo breve, fu l’azienda che pose all’avanguardia l’industria italiana, al pari della FIAT, della Ferrari, della Montedison e di altri marchi prestigiosi che ormai sopravvivono soltanto nella memoria. Tutto per merito suo, Adriano Olivetti, il rampollo del fondatore Camillo, che invece di starsene a fare il figlio di papà a vent’anni era già negli Stati Uniti a studiare come funzionano il capitalismo, la produzione, il management. Per poi tornare in patria e rivoluzionare per sempre quel piccolo mondo antico che era l’industria nazionale, come Bernardo Caprotti avrebbe fatto con la grande distribuzione aprendo Esselunga.

Adriano aveva avuto la carriera interrotta dal Fascismo, a cui dopo un consenso iniziale più che altro dovuto al favore temporaneamente accordato dal Duce al movimento razionalista in architettura (una delle sue passioni, assieme all’urbanistica, alla psicologia ed alla sociologia) si era opposto senza mezzi termini, fino ad essere costretto all’esilio. Adriano Olivetti – per dirne soltanto una, la principale – guidava la macchina a bordo della quale Filippo Turati raggiunse Savona, per imbarcarsi assieme a Sandro Pertini, Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e raggiungere il territorio francese. Nel 1945 era tornato definitivamente in patria, e da allora aveva creato la leggenda dell’Olivetti. La ditta aveva all’epoca un vantaggio in prospettiva determinante perfino sulla IBM per lo sviluppo dei personal computers. Un vantaggio che se lui fosse vissuto la sua azienda avrebbe sicuramente sfruttato, cambiando probabilmente in modo radicale la storia del nostro paese e del mondo.

Adriano Olivetti era una mosca bianca, di un bianco abbagliante nel panorama dell’imprenditoria nazionale. Era convinto di un principio semplice, ma dalla portata travolgente e sicuramente sconvolgente per tante dinastie industriali: il profitto di impresa deve essere reinvestito a beneficio della comunità. Anche la storia del boom economico italiano, dunque, avrebbe potuto essere del tutto diversa, se un malore non lo avesse colto agli albori di esso, portandoselo via mentre si recava in Svizzera a trattare per nuovi finanziamenti per la sua azienda.

Morì il 27 febbraio 1960 a 58 anni (era nato ad Ivrea l’11 aprile 1901), sul treno che lo portava da Milano a Losanna, appena passato il confine. La causa della morte fu ascritta ad emorragia cerebrale, e non fu eseguita autopsia. Il che ha alimentato leggende a non finire, presso una opinione pubblica che di lì a poco, con il caso Mattei, si sarebbe dovuta abituare ai Misteri d’Italia senza apparente soluzione. Adriano Olivetti era un competitor formidabile in prospettiva per le Majors americane dell’informatica. Ufficialmente, si è poi saputo che la C.I.A. lo teneva d’occhio sospettandolo di simpatie comuniste, equivocando sul suo impegno sociale e la sua filantropia aziendali.

Più verosimilmente, è lecito pensare che la IBM tirasse più di un sospiro di sollievo alla notizia della sua scomparsa. E quel sospiro di sollievo e tutto ciò che implicava restano più di ogni altra cosa a monumento imperituro della sua grandezza.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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