Ombre Rosse

Afghan lives matter

La cosa più triste è che l’altra volta almeno un sentimento di più o meno cosciente vergogna i nostri amici americani lo avevano. Dopo quell’aprile del 1975 hanno dovuto fare i conti con la sconfitta militare per la prima volta nella loro storia, hanno dovuto abbandonare un alleato, il Vietnam del Sud, al suo destino dopo averlo illuso. Ma dentro di sé quella sconfitta, quell’esito così vergognoso non l’hanno mai accettato realmente. E non l’hanno mai perdonato, né a se stessi né ai loro politici.

Gli Stati Uniti ci misero diverso tempo per metabolizzare il fatto di averne buscate dai Vietcong, i musi gialli contro cui non doveva nemmeno esserci partita, come nella finale olimpica del torneo di basket contro qualsiasi avversario. Ci vollero film come il primo Rambo o Fratelli nella notte, ci volle un presidente come Ronald Reagan perché gli americani ricominciassero a guardare dentro se stessi, accettando la sconfitta che forse poteva anche essere evitata ma che ormai era arrivata, ed a quel punto esigeva soltanto vendetta, rivincita. Smettendola anzitutto di prendersela con i reduci che non avevano nessuna colpa e che avevano finito per buscarle due volte, in sud-est asiatico e poi al rientro in una patria dove nessuno perdonava loro quella sconfitta appunto che tutti – chi più chi meno – in realtà avevano lottato perché si materializzasse, fin dai tempi delle contestazioni a Lyndon Johnson. Fin dagli accordi di Parigi che Nixon aveva negoziato su mandato popolare, salvo poi pagarne il conto alla prima occasione.

Fu una ferita profonda, nel tessuto sociale americano, che ci mise un sacco di tempo a rimarginare. E che estese la sua infezione anche al corpo sociale europeo. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale l’antiamericanismo latente fin dai giorni della sconfitta del nazifascismo (che molti non avevano sostanzialmente accettato, al di là dei discorsi) era potuto riemergere con le contestazioni del mondo di sinistra alla sporca guerra, che solo apparentemente solidarizzava con quella americana alla leva obbligatoria. In Europa si gridava yankees go home perché si voleva che gli americani se ne andassero anche da qui, oltre che dal Vietnam. Si sognava, più o meno inconsciamente, di potersi così ricongiungere al paradiso dei lavoratori che in realtà nessuno conosceva (Solženicyn lo avevano letto in pochi, gli intellettuali progressisti erano tutti troppo occupati a compulsare il Libretto Rosso di Mao), ma di cui tanti cianciavano.

Reagan riuscì a far rialzare la testa ad un paese, ad una superpotenza in ginocchio, ed a mettere i riottosi alleati europei di fronte alla scelta esistenziale: o con noi o contro di noi, ma nel secondo caso vi difendete da soli. L’occidente si ricompattò in quattro balletti.

Stavolta, niente di tutto questo. Nella migliore delle ipotesi c’é una rassegnazione, un fatalismo che suonano molto sospetti. I Talebani non hanno un esercito paragonabile alla Wehrmacht di Hitler o all’Armata Rossa che aveva tenuto l’Afghanistan per otto anni. Gli americani in compenso ormai hanno un sistema di controllo tecnologico di tutto cò che succede sulla crosta terrestre che dovrebbe rendere impossibile non solo il ripetersi delle Twin Towers ma qualunque atto di aggressione, in patria o all’estero, alle loro forze armate e ai loro stabilimenti militari.

I Talebani sono rientrati in Afghanistan e sono arrivati a Kabul in quindici giorni, senza incontrare resistenza. La diplomazia statunitense (e occidentale) era già in fuga, senza nemmeno preoccuparsi di recuperare dalle sue sedi almeno la bandiera. I marines e gli altri soldati USA si preoccupavano di mettere in salvo più che altro se stessi, facendo impallidire il ricordo delle ignominiose ultime giornate di Saigon di 46 anni prima. Gli altri, i loro collaboratori afghani, se volevano potevano mettersi in salvo aggrappandosi ai carrelli degli aerei in decollo.

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Joe Biden tace, ma che altro può fare uno che è soprannominato Sleepy Joe anche dai suoi stessi collaboratori? Di Kamala Harris non ne parliamo, non si sa nemmeno se ha capito bene cosa sta succedendo, in un settore che era talmente strategico per gli interessi americani da far scatenare loro 20 anni fa una Enduring freedom che all’epoca era stata salutata addirittura come una potenziale terza guerra mondiale, una resa dei conti tra civiltà incompatibili. In Europa, nel frattempo, il responsabile della politica estera UE Josep Borrell chiosa annunciando serafico che i Talebani hanno vinto, e con loro bisognerà trattare. Già, come quando mandammo la Mogherini da Putin, a fargli valere le nostre ragioni sventolandogli il ditino sotto il naso.

Una amministrazione senza spina dorsale voluta dall’elettorato americano perché così il cattivo Trump se ne tornava a casa sua (e fuori da Twitter, dove il capo dei Talebani Ruggerhaj invece tiene salotto imperterrito, senza che nessun Jack Dorsey di questo mondo abbia a risentirsi) ha incontrato da tempo il gradimento di una Unione Europea che senza spina dorsale ci è nata, grazie al mostruoso connubio carnale tra Francia e Germania ed al servilismo da maggiordomi di camera da letto di partners minoritari come l’Italia.

Soltanto che prima di far fronte ad un pericolo diretto gli americani hanno ancora qualche miglio marittimo e qualche margine tecnologico da spendere, da farsi erodere, prima di avere di nuovo i musi gialli al largo di San Francisco come in un remake del film di Spielberg 1941.

Noi no. Come già altre volte nella nostra ben più lunga (ma inutile) storia, abbiamo di nuovo occhi ostili che ci guardano da tutte le altre rive del Mediterraneo. L’Islam fanatico è quasi del tutto padrone dell’altra sponda, da Istanbul a Casablanca. La caduta di Kabul, che era ormai da considerare come una delle nostre tante città occidentali, ha avvicinato alle nostre coste e di parecchio i cannibali che ci mangeranno. Basterà soltanto che trovino imbarcazioni capaci di trasportare di qua non soltanto i falsi migranti che i nostri governanti ci hanno propinato in questi ultimi anni, ma anche una vera e propria forza di invasione.

Abbiamo ceduto già a Maometto I e a Maometto II, adesso aspettiamo il terzo. Magari sarà di etnia talebana, e gli stiamo battendo le mani o lisciando il pelo per il verso proprio in questi giorni, pensando che noi siamo più furbi dei cazzoni americani e che ci metteremo d’accordo con il lupo che ha già l’acquolina in bocca mentre ci scruta da lontano (molto meno lontano di prima).

Anche se poi alla sceneggiatura di un film del genere è rimasta a crederci realmente soltanto Luciana Castellina.

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Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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