Accadde Oggi Calcio

Azzurro tenebra

La copertina di "Azzurro tenebra", Giovanni Arpino, Einaudi 1977

I leoni di Highbury erano stati finalmente vendicati. Il calcio italiano e la nazionale azzurra erano ritornati finalmente grandi, e si erano tolti la più grande delle soddisfazioni al cospetto dei vecchi maestri di una volta. L’Italia aveva finalmente battuto l’Inghilterra, dapprima a Torino e poi addirittura a Wembley. Di tutti i risultati prestigiosi che avevano costellato i quattro anni trascorsi dalla finale dell’Azteca, questi conseguiti contro gli inglesi erano stati i più determinanti nell’accreditare i ragazzi di Valcareggi come favoriti dal pronostico, per la prima volta nel dopoguerra, nell’edizione successiva che si sarebbe disputata in Germania, a Monaco di Baviera.

Ma era cambiato tutto, o stava per farlo. Il nostro paese aveva ritrovato le certezze di una volta, a proposito della grandezza della sua scuola calcistica. Ma in generale aveva perso l’entusiasmo degli anni del boom economico, e per la prima volta dai tempi della ricostruzione post-bellica tornava a vedere non proprio chiaro a proposito del suo futuro. Agli anni del miracolo economico erano succeduti gli anni di piombo, della strategia della tensione, degli opposti estremismi, delle stragi terroristiche e della recessione economica avviata dalla crisi del petrolio. L’Italia del 1974, diversamente da quella del 1970, aveva la testa meno sgombra da pensieri per dedicarsi spensieratamente a quel mese di follia collettiva giustificata che erano da sempre i Mondiali di Calcio.

La foto simbolo dei Giochi della XX^ Olimpiade, Monaco di baviera 1972

La foto simbolo dei Giochi della XX^ Olimpiade, Monaco di baviera 1972

Il mondo, poi, aveva ricominciato a respirare l’aria gelida e dal retrogusto ferruginoso della peggiore Guerra Fredda. Due anni prima, nella stessa Monaco dove si sarebbe assegnato il titolo di campione ai successori del Brasile insieme alla coppa disegnata dall’orafo italiano Silvio Cazzanga in sostituzione della Rimet, una splendida XX^ Olimpiade (che avrebbe dovuto sancire tra l’altro la riconciliazione della nuova Germania democratica con il mondo intero che stentava a dimenticare il suo passato nazista) era stata insanguinata e di fatto dichiarata chiusa anzitempo dalla tragedia di Settembre Nero e della strage della squadra olimpica israeliana. Non c’erano più soltanto USA e URSS a controllare il pianeta come un campo di battaglia virtuale, ma nuove e potenti forze in via di possente e tragico sviluppo che lasciavano prevedere il peggio per il futuro.

Italia 1974, da sinistra in alto: Beneti, G. Morini, Burgnich, Chinaglia, Spinosi, Zoff; accosciati: Capello, Causio, Anastasi, Facchetti, S. Mazzola.

Italia 1974, da sinistra in alto: Benetti, G. Morini, Burgnich, Chinaglia, Spinosi, Zoff; accosciati: Capello, Causio, Anastasi, Facchetti, S. Mazzola.

Rideva solo il mondo del pallone, mentre si radunava in una Germania Ovest in cui la polizei aveva stretto i controlli affinché nessuno, fedayn, neonazista, terrorista della Rote Armee Fraktion o altro, pensasse di poter ripetere le gesta dei palestinesi. Anche nel calcio si stavano muovendo forze nuove e potenti che promettevano, in questo caso, spettacolo e divertimento come non mai. Assieme all’Italia arrivavano sul suolo tedesco da favoriti altri squadroni, oltre ai padroni di casa che volevano mettere a frutto l’occasione storica per conquistare il secondo titolo dopo quello del 1954, consapevoli di avere la squadra giusta per farlo. I tedeschi occidentali erano campioni d’Europa in carica, e attendevano a pié fermo gli Azzurri ai quali chiedevano la rivincita del 4-3 di Città del Messico. Insieme a loro si allineava ai blocchi di partenza una grande Polonia, piena zeppa di campioni come Deyna e Lato e capace di eliminare l’Inghilterra a casa sua grazie anche alle prodezze dell’altro suo fuoriclasse, il portiere Ian Tomacewski che era diventato celebre anche per la sua acconciatura da guerriero apache.

Il Kaiser e il Profeta

Il Kaiser e il Profeta

Ma soprattutto si presentavano loro, gli Orange, una banda di artisti geni e sregolatezze del pallone capaci di avventarsi contro qualsiasi avversario come guerrieri vichinghi o di nascondergli il pallone per novanta minuti come poche altre formazioni erano riuscite a fare nella storia. Cresciuti alla corte dell’Ajax di Amsterdam con cui avevano stravinto le ultime tre Coppe dei Campioni, i lancieri si erano ritrovati nella nazionale arancione senza tradizione ma con tutte le intenzioni ed i numeri per farsela. Agli ordini di un capo leggendario, con l’insegna del numero 14 sulla maglia che sarebbe diventata altrettanto leggendaria, e che qualcuno già cominciava a soprannominare il Pelé bianco, il Profeta del Gol. Johann Cruyff, il fuoriclasse a capo di un movimento che si sarebbe chiamato calcio totale (dove tutti facevano tutto, compreso quel matto del portiere, Jongbloed) e che avrebbe cambiato per sempre un gioco che da quasi cento anni aveva regole e schemi immutabili.

I favoriti erano questi, con una preferenza per l’Olanda almeno da parte di chi l’aveva seguita fin da prima dei Mondiali. L’Italia, per la gioia dei nostri immigrati, come detto si presentava come uno dei giganti in lizza. Ma, per la delusione dei nostri immigrati e la gioia dei tedeschi che rosicavano dal 4-3 di quattro anni prima, si sarebbe rivelato un gigante dai piedi di argilla.

Dino Zoff e Ian Tomacewski

Dino Zoff e Ian Tomacewski

Gli eroi dell’Azteca avevano quattro anni di più, e per un calcio in cui improvvisamente bisognava mettersi a correre come forsennati erano tanti. Lo spogliatoio non era mai stato del tutto unito, dai tempi della staffetta Rivera – Mazzola, e ad esso si erano aggiunti personaggi ancor più destabilizzanti come quel Giorgio Chinaglia che avrebbe mandato Valcareggi a quel paese in mondovisione alla prima occasione. Rombo di Tuono rombava meno, e più in sottofondo, essendo reduce dal primo dei gravi infortuni che avrebbero accorciato la sua carriera. De Sisti aveva lasciato il testimone a Capello, ed era l’unica sostituzione adeguata rispetto al Messico (oltre a quella di Domenghini con Causio), ma Picchio aveva avuto un controllo del centrocampo azzurro che non si reinventava dall’oggi al domani. Dino Zoff arrivava in Germania imbattuto da mille minuti, un record che sarebbe durato fino ai tempi nostri e a Gigi Buffon, interrotto all’epoca dal gol dell’haitiano Sanon che avrebbe rivelato a tifosi e addetti ai lavori la vera consistenza della spedizione azzurra a Stoccarda.

Dino Zoff ed Emmanuel Sanon

Dino Zoff ed Emmanuel Sanon

Sorteggiati in un girone non facile, con l’emergente Polonia e la sempre ostica Argentina, bastò Haiti a far capire a tutti che le rose e fiori erano rimaste a casa, se non in Messico. Gli Azzurri rimontarono con fatica fino al 3-1, zio Uccio si prese il vaffa di Giorgione, mentre i polacchi battevano gli argentini e qualcuno quella sera si illuse di poter spartire la posta con loro come in altri gironi di sofferta qualificazione del passato.

Giovanni Arpino, un grande giornalista di quegli anni, ha raccontato nel suo splendido romanzo – reportage Azzurro tenebra le vicende ed il clima di quella partecipazione italiana al Mondiale di Germania. Come si scivolò lentamente ma inesorabilmente dall’euforia alla preoccupazione, all’incredibile disfatta. Incredibile, ma neanche tanto. Il gioco italiano era invecchiato, sia per motivi anagrafici che per l’esplosione del calcio totale, di cui proprio la Polonia stava risultando essere appunto una delle protagoniste più convincenti.

Giorgio Chinaglia nell'attimo del celebre "vaffa" a Valcareggi

Giorgio Chinaglia nell’attimo del celebre “vaffa” a Valcareggi

Mentre da un’altra parte l’Olanda dava spettacolo, la Polonia sommergeva Haiti aggiustandosi la differenza reti, l’Italia invece soffriva anche contro una non trascendentale Argentina, capace tuttavia di andare in vantaggio e di farsi raggiungere soltanto su fortunosa autorete. Altro che spartizione della posta. La partita contro i polacchi diventava a quel punto un dentro o fuori. Questione di vita o di morte, sportivamente parlando.

Il 23 giugno al Neckarstadion di Stoccarda le illusioni italiane durarono un tempo. All’intervallo, Szarmach e Deyna ci avevano già estromessi dal Mondiale in cui si correva come noi non eravamo più in grado di fare. Si trotterellava, semmai, confidando in una classe ormai agli sgoccioli ed in uno stellone che era tornato quello opaco degli anni cinquanta e sessanta. A cinque minuti dalla fine Capello segnò il gol della bandiera, rendendo se possibile ancora più amaro il boccone. La tenebra era scesa definitivamente sulle maglie azzurre per avvolgerle nel definitivo oblio.

Chinaglia a terra simboleggia l'Italia in ginocchio davanti alla Polonia

Chinaglia a terra simboleggia l’Italia in ginocchio davanti alla Polonia

Per la truppa azzurra, a quel punto, si prospettava l’ennesimo ritorno a casa inglorioso e celebrato dal consueto lancio di pomodori marci all’aeroporto. Era successo dopo il Messico, figurarsi adesso, mentre i nostri emigranti in Germania si rintanavano in casa per evitare le beffarde ritorsioni tedesche. E invece, la rimpatriata della delegazione azzurra fu incredibilmente tranquilla. Gli italiani, che tifassero o meno, avevano forse cose drammaticamente più serie a cui pensare in quello scorcio di giugno del 1974. Il Belpaese risuonava continuamente del rumore delle esplosioni delle bombe di destra o di sinistra, l’ultima era scoppiata a Piazza della Loggia a Brescia, e la prossima, già nell’aria, sarebbe stata a San Benedetto Val di Sambro, all’uscita dalla galleria appenninica del treno Italicus, destinato a diventare il simbolo di un paese diretto verso la catastrofe come la Locomotiva di Francesco Guccini.

4 agosto 1974, S. benedetto Val di Sambro

4 agosto 1974, S. Benedetto Val di Sambro

Gli italiani avevano altro a cui pensare, e mentre in Germania proseguiva uno splendido torneo che a quel punto avrebbero potuto seguire senza le angustie del tifo – fino all’epilogo finale della vittoria, sorprendente fino ad un certo punto, dei padroni di casa su un’Olanda che era sembrata invincibile, con ottima terza la Polonia che ci aveva eliminati, risultato che in qualche modo ridimensionava la nostra dèbacle -, a casa nostra una F.I.G.C. per una volta ispirata al meglio avviava una rifondazione che avrebbe aperto le porte ad una generazione calcistica in grado di rinnovare i fasti messicani, e di fare alla fine anche qualcosa di più. Un nome su tutti, la numero dieci di Gianni Rivera sarebbe passata sulle spalle di Giancarlo Antognoni, che un giorno avrebbe sollevato al cielo quella coppa disegnata da Cazzaniga che l’abatino non era riuscito ad alzare. La numero quattordici invece sarebbe finita sulle spalle di Marco Tardelli, altro fuoriclasse che avrebbe dichiarato di averla scelta in onore del più grande giocatore visto all’opera da quella generazione di ragazzini innamorati del calcio: Johann Cruyff, il bianco che giocava come Pelé.

Cochi e Renato

Cochi e Renato

Nel momento sportivamente (ma non solo) più tenebroso, gli italiani impararono in quell’inizio estate 1974 che si può anche perdere e non farne un dramma, anche se si partiva da favoriti. Del resto, stavano imparando a non fare un dramma di cose ben peggiori di una eliminazione precoce dal Mondiale di Calcio. Le bombe continuavano a scoppiare in tutta la penisola, ma non c’era sabato sera che gli italiani non si stringessero alla televisione cantando la canzone lanciata da una coppia di comici, Cochi e Renato, figli prediletti di quello Jannacci che aveva accompagnato il Mundial di quattro anni prima con Messico e Nuvole.

Stavolta il tormentone si chiamava E la vita, la vita. Il Poeta e il Contadino riuscivano a strappare sorrisi ad un paese che di voglia di ridere ne avrebbe avuta anche poca. E le tenebre di Stoccarda, e di ogni altro luogo del nostro dramma civile, a poco a poco si diradavano e l’azzurro del cielo d’Italia e delle maglie dei calciatori ridiventava un colore di cui inorgoglirsi.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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