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Dio protegga la Nuova Zelanda

L’Impero Britannico non esisteva più, mandato in archivio storico dagli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale e dalla decolonizzazione avviata nel dopoguerra anche per effetto della guerra fredda e della nuova realtà delle superpotenze nucleari. Al suo posto era sorto il Commonwealth of Nations, una parvenza di comunità politica tenuta insieme ormai da legami simbolici e più che altro da interessi economici. L’Inghilterra e quelli che erano stati i suoi Dominions mantenevano in comune la corona della regina Elisabetta, la bandiera e l’inno nazionale, God Save the Queen, anche se il centro di ciò che sopravviveva del vecchio impero era ormai la City di Londra con il suo Stock Exchange, la Borsa, e non più Buckingham Palace.

Attraverso gli Anni Sessanta e Settanta, dopo che l’India aveva abbandonato per prima il British Raj, mentre le ex colonie africane, dal Kenya al Sudafrica, se ne andavano per conto loro anch’esse verso una difficile indipendenza e dei vecchi capisaldi strategici dell’Impero sopravvivevano solo Hong Kong e Gibilterra mentre Malta si univa al novero delle nuove repubbliche post-coloniali, restavano con la mano sul petto ad ascoltare il Dio Salvi la Regina in piedi davanti all’Union Jack mossa dal vento soltanto gli ultimi e più preziosi gioielli della corona: Canada, Australia e Nuova Zelanda.

La prima a tagliare il cordone ombelicale sonoro fu proprio quest’ultima, la terra più lontana dalla ex Madrepatria tra quelle scoperte da James Cook. La Nuova Zelanda, Aotearoa come la chiamavano gli abitanti originari giunti sui Kon Tiki da chissà dove nell’immensa distesa dell’Oceano che un giorno si sarebbe chiamato Pacifico: i Maori.

Mappa della Nuova Zelanda disegnata da Cook nel suo primo viaggio del 1769–70

Mappa della Nuova Zelanda disegnata da Cook nel suo primo viaggio del 1769–70

Aotearoa, la terra dalle lunghe nuvole bianche, la chiamarono così scorgendola all’orizzonte aggrappati alle esili strutture delle loro piroghe e zattere. La popolarono e dominarono fino all’arrivo della razza bianca. I primi esploratori olandesi avevano ribattezzato la loro terra Nieuw Zeeland, portando all’estremo sud del mondo il nome di una delle loro Sette Province Unite nei Paesi Bassi. Gli inglesi colonizzatori avrebbero anglicizzato il nome, come avevano fatto con Nuova Amsterdam nella costa orientale dell’America del Nord e con il Sudafrica.

Ai Maori sopravvissuti in qualche modo alla colonizzazione, un giorno la cattiva coscienza dei bianchi avrebbe tributato l’onore di affiancare la loro lingua all’inglese nelle parole di quello che sarebbe diventato il nuovo inno nazionale.

Il 21 novembre 1977 il parlamento neozelandese approvò l’ufficializzazione del nuovo inno nazionale che avrebbe affiancato (e progressivamente sostituito) quello del Commonwealth, God Save the Queen.

God Defend New Zealand era stato musicato dal compositore John Joseph Woods sulle parole del poeta nazionale Thomas Bracken nel 1870. Un secolo dopo la sua popolarità veniva sancita al massimo livello possibile. Le prime due strofe sono cantate in lingua Maori, le altre in inglese.

La storica decisione del parlamento neozelandese fu seguita a breve da quello canadese, che nel 1980 dichiaro inno nazionale Oh Canada!, testi e musiche di due autori francofoni scelti per non scontentare la minoranza del Quebec dopo le polemiche suscitate dal precedente Maple Leaf Forever, giudicato troppo filobritannico.

Nel 1984 il parlamento australiano adottò come inno nazionale Down Under il brano Advance Australia Fair, composto nel 1878 dal britannico Peter Dodds mcCormick. L’inno era stato scelto a seguito di un referendum in cui il vecchio inno reale era giunto soltanto terzo. Il nuovo inno giungeva però alla ribalta con un anno di ritardo per essere suonato nella circostanza più prestigiosa, il risultato sportivo forse più importante di sempre della nazione australiana.

A Newport, Rhode Island nel 1983 per la prima volta il challenger aveva vinto l’America’s Cup di vela costringendo il defender americano alla resa per la prima volta dal 1851. Mentre Alan Bond imbarcava la coppa su Australia 2 diretta alla volta della terra dei canguri, le note di accompagnamento erano ancora quelle di God Save the Queen.

Al giorno d’oggi l’inno reale viene suonato ormai soltanto in occasione delle visite di Sua Maestà la regina Elisabetta a quelle che una volta si compiaceva di considerare le pietre più preziose della sua corona.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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