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Eugenio Montale, il poeta del dubbio

Annoverato tra i grandi poeti del Novecento europeo, Eugenio Montale ci ha lasciato in dono una grande eredità letteraria tra poesia, prosa e giornalismo. 

Nato a Genova il 12 ottobre 1896  e scomparso a Milano il 12 settembre 1981, fu il quarto italiano a vincere il Premio Nobel per la Letteratura, nel 1975.

Montale si avvicinò alla poesia da autodidatta, leggendo Dante, Petrarca, Boccaccio e D’Annunzio, aderendo  pure al simbolismo letterario. Poi,  dal 1948 iniziò a collaborare per il Corriere della Sera, scrivendo di letteratura straniera e di critica letteraria. 

Nominato Senatore a Vita nel 1967, otto anni dopo fu premiato dall’Accademia Svedese con il massimo riconoscimento per uno scrittore, «per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illuminazione».

Amava descrivere se stesso e la sua poesia con queste parole: «Io sono stato un poeta che ha scritto un’autobiografia poetica senza cessare di battere alle porte dell’impossibile. Non oserei parlare di mito nella mia poesia, ma c’è il desiderio di interrogare la vita».

La prima edizione della raccolta di poesie “Ossi di Seppia”

La prima edizione della raccolta di poesie “Ossi di Seppia”

Ma a volte il destino dei poeti sembra quello di essere travisati: trascorrono una vita ad esprimere con i loro versi, i propri dubbi, i propri sentimenti e poi, la storia li tramanda non per quello che credevano e sostenevano di essere, bensì per tutt’altro. 

Così in parte questo è ciò che è avvenuto anche con le poesie di Eugenio Montale.

Tutta la poetica dello scrittore genovese è stata, in verità, contrassegnata dall’incertezza, dall’incapacità di cogliere il senso profondo dell’esistenza: quale sia per davvero l’essenza di vivere, lo si intuisce appena, poi sfugge.

Montale è stato insomma  un poeta del dubbio, l’esatto contrario delle certezze che invece esternavano, poco prima di lui, autori come  Gabriele D’Annunzio.

Eppure lui, così dubbioso e incerto, è divenuto l’unico punto fermo dei programmi scolastici della nostra letteratura italiana. 

Conclusasi, perlomeno in parte, la moda che aveva premiato Giuseppe Ungaretti e l’interesse per gli ermetici alla Salvatore Quasimodo, negli ultimi anni Montale è diventato il cardine dei programmi delle scuole superiori.

Ma il messaggio di questo poeta non deve limitarsi ad uno studio mnemonico, in cui si ripetono sempre le solite quattro frasi ad effetto: per non fare morire il messaggio di Montale, occorre  cogliere il senso delle sue parole, in una poesia che è da scoprire verso dopo verso, tanto semplice nel linguaggio, quanto poco intuitiva, invece, nel suo senso più profondo.

Pertanto, nel giorno della sua ricorrenza, ci piace riproporvi una delle più belle poesie del Premio Nobel ligure, senza fare uso di alcuna introduzione, ma semplicemente volendo lasciare spazio alle parole dello stesso autore, affinché ciascuno di noi  ne possa assaporare la musicalità e la profondità, senza troppi preconcetti o tecnicismi. 

I Limoni 

Ascoltami, i poeti laureati 

si muovono soltanto fra le piante 

dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. 

lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi 

fossi dove in pozzanghere 

mezzo seccate agguantanoi ragazzi 

qualche sparuta anguilla: 

le viuzze che seguono i ciglioni, 

discendono tra i ciuffi delle canne 

e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli 

si spengono inghiottite dall’azzurro: 

più chiaro si ascolta il susurro 

dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, 

e i sensi di quest’odore 

che non sa staccarsi da terra 

e piove in petto una dolcezza inquieta. 

Qui delle divertite passioni 

per miracolo tace la guerra, 

qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza 

ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose 

s’abbandonano e sembrano vicine 

a tradire il loro ultimo segreto, 

talora ci si aspetta 

di scoprire uno sbaglio di Natura, 

il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, 

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta 

nel mezzo di una verità. 

Lo sguardo fruga d’intorno, 

la mente indaga accorda disunisce 

nel profumo che dilaga 

quando il giorno piú languisce. 

Sono i silenzi in cui si vede 

in ogni ombra umana che si allontana 

qualche disturbata Divinità.

Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo 

nelle città rurnorose dove l’azzurro si mostra 

soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. 

La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta 

il tedio dell’inverno sulle case, 

la luce si fa avara – amara l’anima. 

Quando un giorno da un malchiuso portone 

tra gli alberi di una corte 

ci si mostrano i gialli dei limoni; 

e il gelo dei cuore si sfa, 

e in petto ci scrosciano 

le loro canzoni 

le trombe d’oro della solarità.

da Ossi di seppia (Torino, Piero Gobetti Editore 1925).

 

Autore

Redazione

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