Ombre Rosse

Head to head, l’Occidente col fiato sospeso

Diceva Winston Churchill: se da giovane non sei di sinistra, sei senza cuore; se da vecchio non sei di destra, sei senza cervello.

Sono stato concepito nell’anno in cui John Fitzgerald Kennedy portò la nuova frontiera alla Casa Bianca sconfiggendo Richard Nixon. Mi ritrovo adesso, sessant’anni dopo, aggrappato ai risultati contraddittori dell’Election Day 2020, a sperare che Donald Trump ce la faccia. Perché in caso contrario, se ce la fanno gli altri, i dem, niente mi leva dalla testa che siamo tutti morti. Dead men walking.

Sarei stato per JFK nel 1960, come so che lo erano i miei genitori e tutti i giovani in età adulta in tutto il mondo. Se non eri per JFK allora, eri senza cuore. Ero troppo piccolo per intendere e volere allora ed ancora tre anni dopo a Dallas, quando il sogno si infranse. I giovani sognano, da che mondo è mondo. A rovinare i loro sogni ci pensano sempre i vecchi. Anche questo sapeva Churchill, anche se non l’ha mai detto.

Nel 1972 ero per Bernstein e Woodward, contro Nixon e lo scandalo Watergate. Nel 1976 ero per Jimmy Carter e l’enorme pagina che aveva voltato. Nel 1980 ero perplesso a proposito della vittoria di Ronald Reagan, il duro, il conservatore. Quattro anni dopo, per il suo secondo mandato, tanti dubbi mi erano già spariti dalla testa. Se il mio mondo era ancora in piedi, mi stavo rendendo conto che lo dovevo a lui, non a chi si professava di sinistra, di qua e di là dall’Atlantico.

Nel 1991 ero per George Bush sr., e per la guerra contro il nuovo Hitler, Saddam Hussein. Nel 1992, un anno dopo, ero per i Clinton, Bill e Hillary. Senza sapere che era l’ultima volta che mi sarei fatto affascinare dalle etichette: il nuovo Kennedy, la prima donna che un giorno sarebbe tornata alla Casa Bianca non più come First Lady ma come Presidentessa. Bastò Monica Lewinski ed un rapporto sessuale improprio a scoprire il bluff di tutti e due.

Non trovai niente da eccepire contro l’American Vendetta scatenata da Bush jr. contro Al Qaida dopo le Torri Gemelle, nel 2001. Ed era il segno che rispetto alla dicotomia enunciata da Churchill stavo passando dall’altra parte della barricata. La testa mi diceva che la storia era tutt’altro che finita, come sosteneva qualcuno, e ne cominciava invece un’altra in cui la mia gente, l’Occidente, erano più a rischio che mai. I sogni psichedelici di una certa sinistra appartenevano ad uno spensierato ed allucinogeno passato. Era tempo di scegliersi di nuovo dei capi, e che fossero in gamba. Era tempo di combattere, per la nostra sopravvivenza.

Nel 2008, applaudii Barack Obama, ma era più un omaggio ai sogni di gioventù ed a miti mai tramontati, come quello di Martin Luther King e di Mohamed Alì. Il primo presidente colored fu una delusione cocente, per i suoi stessi connazionali afroamericani prima che per il resto del mondo.

Donald Trump fu quasi una liberazione, la candidatura di un uomo nuovo antisistema contro un sistema che produceva ormai soltanto discorsi vuoti e bolle speculative. La sua vittoria contro una Hillary Clinton caricata di troppi significati e di troppe responsabilità fu una liberazione ancora più grossa.

Per quattro anni abbiamo respirato di sollievo, mentre i democratici ricacciati indietro cercavano di intorbidare le acque, nonostante Trump nel frattempo riportasse l’economia americana – il motore del pianeta, che piaccia o no agli intellettuali da spinello libero di qua e di là dell’Atlantico – a livelli mai più raggiunti dai tempi di Reagan, e costringesse l’Occidente volente o nolente a rialzare la testa, malgrado le tentazioni di resa totale alla Cina ed ai Terzi e Quarti Mondi sempre più aggressivi.

Come nel 2000, annus horribilis per il sistema elettorale americano, siamo di nuovo aggrappati al conteggio e riconteggio delle schede votate per posta. Come nel 2000, dovremo aspettare il risultato pronunciato dalla Corte Suprema, e chissà se e quanto sarà un risultato genuino. La democrazia americana è un meraviglioso miscuglio di futuribile e di vintage di cui già ai tempi di George Washington si discuteva l’opportunità. Funziona così da più di duecento anni, non sarà questa la volta in cui andrà in crisi, malgrado gli auspici di chi vorrebbe un mondo eterodiretto da altre bandiere che non quella a stelle e strisce.

Chiunque vinca tra Biden e Trump sarà il presidente degli Stati Uniti, e la mattina dopo avrà il rispetto incondizionato di un intero paese che crede ancora nelle sue istituzioni (al netto dello scarso fair play dimostrato dai democratici negli ultimi anni, da quando si sono resi conto che neanche in America vincono più senza ricorrere al gioco più o meno sporco). Gli Stati Uniti del resto alla testa dell’economia e della politica mondiale in qualche modo ci resteranno. Siamo noi, i vecchi decrepiti e debosciati europei che, nonostante l’illusione di non aver più bisogno di loro, senza di loro ci troveremmo a mal partito. Finiremmo strozzati da miasmi cinesi o sgozzati da scimitarre islamiche.

La vittoria di Biden farebbe di noi dei morti che camminano. Chi è giovane, può anche illudersi del contrario e credere di avere un cuore. Chi è più anziano, dovrebbe sapere bene ciò che gli dice la testa. Se alla fine di questo head to head con probabile riconteggio di schede e ricorsi e controricorsi le schede democratiche dovessero risultare in qualche modo più di quelle repubblicane, noi abbiamo chiuso.

Game over.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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