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I Vichinghi in America

Raffigurazione dello sbarco di leif Eriksson a Terranova

Raffigurazione dello sbarco di leif Eriksson a Terranova

Abbiamo cambiato calendario tante di quelle volte da non poter essere più sicuri di nulla. Ma una cosa è certa, questi erano i giorni in cui i marinai delle caravelle di Cristoforo Colombo scrutavano l’orizzonte con apprensione, facendo il conto delle provviste rimaste e meditando di ammutinarsi per costringere l’Ammiraglio ad invertire la rotta e riportarli a casa, in Spagna. I giorni in cui Colombo, confortato dai suoi calcoli e dalle sue intuizioni, riuscì a convincerli ad andare avanti un altro po’, fino ad avvistare quella terra che sarebbe stata battezzata San Salvador e che avrebbe consegnato quell’equipaggio ed il suo comandante all’immortalità.

Colombo era destinato alla storia come lo scopritore di un continente di cui non aveva idea dell’esistenza. Eppure era salpato convinto che quel viaggio, quella rotta verso l’ignoto avessero un senso, una meta per raggiungere la quale serviva il coraggio che era mancato finora agli antichi abitatori del continente europeo.

A tutti meno che ad alcuni. Colombo, come tutti i marinai della sua epoca, sapeva che il vecchio anatema della Chiesa Cattolica e prima ancora delle divinità del Mondo Antico non aveva più senso. Le Colonne d’Ercole, come tutti i limiti, erano lì per essere superate. L’Oceano era un mare navigabile, come lo era stato da sempre il Mediterraneo.

Canada181009-001Queste cose le sapeva non solo dai filosofi, scienziati e cartografi del suo tempo, ma anche dai resoconti di navigazione, dalle saghe tramandate da un popolo che non aveva avuto paura di niente, e davanti a niente si era fermato. E che negli stessi giorni dell’anno aveva già compiuto un’impresa simile alla sua, ma cinquecento anni prima di quell’Anno Mille di cui aveva avuto paura ancor meno che delle Colonne d’Ercole.

I Vichinghi avevano avuto un vantaggio, potendo navigare quasi sottocosta con i loro Drakkar. Il tratto di mare più ampio da attraversare, partendo dai loro porti d’origine norvegesi o da quelli che si erano conquistati nell’Inghilterra sassone, era quello che li separava dall’Islanda. Da lì alla Groenlandia il passo era stato più breve. Da lì ancora più a ovest era stato facile, per navigatori ardimentosi com’erano loro, spingersi lungo le coste di quello che un giorno colonizzatori più capaci di brevettare le loro scoperte avrebbero chiamato Canada.

Da lì ancora, di nuovo sottocosta, erano arrivati ad una terra che un giorno i colonizzatori anglo-francesi avrebbero battezzato New Foundland, Terranova, e che loro più prosaicamente avevano chiamato Vinland. La terra del vino.

L’Europa in cui i Vichinghi compivano le loro razzie e le loro conquiste era un continente che aveva una temperatura media più alta di un grado centigrado, secondo gli studi moderni. Ciò permetteva la coltivazione, molto più a nord di quanto non concepiamo adesso, di una pianta, la vite, che noi moderni sappiamo non poter attecchire e produrre frutti al di sotto della linea che va dalla Provenza all’Ungheria.

Antica mappa di Vinland che si ritiene appartenuta ai Vichinghi

Antica mappa di Vinland che si ritiene appartenuta ai Vichinghi

I Vichinghi avevano scoperto, ed apprezzato, la vite ed il succo che se ne ricavava nella Normandia conquistata prima dell’Anno Mille. Conoscevano bene quella bevanda e ne andavano pazzi. E ne riconobbero la pianta, nella versione selvatica, non appena sbarcati nella terra che sta di fronte al Labrador ed all’odierno Canada. Il cui nome era destinato a derivare dalla corruzione del termine Kanata, usato dagli indiani Irochesi per definire la loro comunità, il loro villaggio.

I Vichinghi di Erik il Rosso e poi di suo figlio Leif Eriksson, i due equipaggi destinati a lasciare la prima traccia della scoperta dell’America nelle saghe nordiche e quindi nei resoconti di viaggio che avrebbero ispirato Cristoforo Colombo, entrarono in contatto con gli indigeni del luogo, oltre che con quella benedetta vite selvatica.

La Terra del Vino divenne parte del loro mondo e rimase nella loro tradizione, per passare poi in quella che – consegnata agli eruditi di un’Europa che lottava per riemergere dai Secoli Bui dell’ignoranza e della barbarie – sarebbe diventato il patrimonio mistico–scientifico dei Templari e di tutti coloro che cercavano di riannodare un sapere antico e creduto ormai perduto alle moderne scoperte geografiche e scientifiche.

Le tombe vichinghe di L'Anse aux Meadows, Terranova

Le tombe vichinghe di L’Anse aux Meadows, Terranova

Il templare Colombo non sapeva esattamente dove stesse andando, salpando da Palos de la Frontera il 3 agosto 1492. ma sapeva perché ci stava andando. Come lo aveva saputo Marco Polo, come lo sapevano i navigatori delle coste atlantiche dell’Europa che già prima di lui avevano circumnavigato l’Africa, o lasciato nel Nuovo Mondo vestigia di se stessi e di un passato ancor più favoloso di quanto le storie medioevali ci avevano tramandato.

Quando nel 1961 le prime tombe vichinghe furono scoperte a L’Anse aux Meadows, sulla costa settentrionale di Terranova, qualcuno si ricordò delle descrizioni fatte degli Skrælingar, gli indigeni dalla pelle rossa, dagli uomini di Erik e di suo figlio Leif. E si accorse che non differivano affatto da quelle di John Smith e dei primi colonizzatori inglesi di una parte di mondo che i loro vecchi nemici e razziatori norvegesi e danesi avevano scoperto e abitato molto prima di loro.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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