Accadde Oggi

Istria, la cattiva coscienza di una cattiva sinistra

 

Non manca giorno che qualche anima bella della sinistra pretenda di dare lezioni di solidarismo e di accoglienza al resto del paese che cerca di preoccuparsi piuttosto di sopravvivere, visto che a quanto pare del destino degli italiani se ne preoccupano in pochi. Giudicando gli altri, le destre, quelli che gli italiani li hanno invece a cuore, invariabilmente fascisti.

Come settanta anni fa. Non è cambiata da allora la coscienza a senso unico di una sinistra che non è cresciuta affatto, anzi si è incanaglita nell’opportunismo politico e in un istintivo sentimento anti-italiano, antipatriottico, terzomondista per partito preso o per malcelato interesse.

Da settant’anni a questa parte, c’é una parola – che una volta indicava geograficamente una parte del nostro territorio nazionale – che basta da sola a tacitare qualunque pretesa della sinistra accogliente, solidale, progressista e presuntuosamente antifascista. E a rievocare la sua cattiva coscienza mai emendata. Quella parola è Istria.

Per gli italiani che venivano da quella terra, espropriati e sloggiati in un bagno di sangue da parte di un esercito comunista, quello del popolo comandato da Tito che si stava dimostrando non migliore di quello nazista, non ci fu comprensione alcuna. Né da parte del P.C.I., né da parte degli intellettuali che si stavano consegnando ad esso legati mani e piedi, rinunciando a qualunque intelletto, a qualunque moralità. Ai profughi sfollati nel resto d’Italia, da parte dei militanti comunisti e della gente più ignorante ma comunque sensibile a certa propaganda, fu sputato addosso spesso e volentieri.

Ma piuttosto delle nostre parole, vogliamo ripubblicare quelle del maestro di tutti i giornalisti, quell’Indro Montanelli che settant’anni fa era inviato a Pola, nel cuore della tragedia istriana, per conto del Corriere della Sera.

Ecco alcuni estratti dei suoi articoli, il primo pubblicato il 28 novembre 1954, un mese dopo circa il ritorno di Trieste all’Italia, sfuggita agli artigli insanguinati dei partigiani titini. Ogni commento, almeno per chi ha davvero una coscienza, è superfluo.

«HANNO PERSO TUTTO NON CHIEDONO NULLA»

«La serietà, la dignità, le generosità di questi italiani esemplari non servano di pretesto per dimenticarli; essi devono essere accolti con tutti gli onori nella collettività nazionale.

Bella gente, la più bella d’Italia, la più educata, la più dignitosa. Ridotti a vivere in dieci o dodici in una stanza, riescono a farlo in un ordine e pulizia esemplari, cercando lavoro e senza mai lamentarsi.

L’importante che a Roma ci si renda conto dell’urgenza e della gravità della situazione istriana […]. I duecentomila istriani che diventeranno presto duecentocinquantamila o trecentomila. Ricordiamoci che essi sono il meglio della Nazione, la quale di tasca loro ha saldato i suoi debiti (di guerra).

Il fatto ch’essi non piangono, non questuano, non rompono le scatole a nessuno, non fanno di professione le vittime non ci incoraggi a ignorarli!».

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Nel 1947, così Montanelli aveva raccontato in diretta sempre sulle colonne del Corriere la tragedia dell’esodo di Pola:

«Ciò che più indigna non è tanto l’abbandono di Pola quanto il modo in cui viene eseguito; in uno stillicidio di morti, nella continua insicurezza delle persone, in una ragnatela di difficoltà per i nostri e di condiscendenza per gli altri: tutto per ‘sdrammatizzare’, tutto per negare che esista un problema polesano. Ma i quattro caduti di ieri, ma il partigiano maciullato che agonizza nell’infermeria del Toscana (la nave che portava via i profughi, n.d.r.), ma questa gente fra cui mi trovo che gremisce i ponti e la stiva, queste mamme dal volto incorniciato in lunghe pezzuole nere che stringono al seno bambini lattanti avvolti in fazzoletti tricolori non c’è tentativo di propaganda che basti a ‘sdrammatizzarli’.»

Montanelli polemizzava apertamente con coloro che in quei giorni, in Italia, mistificavano la pulizia etnica attuata spregiudicatamente dai titini con la propaganda diffusa ad arte secondo la quale quell’esodo era nient’altro che la fuga di ricchi ed ex fascisti dall’avanzata della giustizia comunista.

«Anche io avevo avuto il dubbio, in un primo momento, che questo timore fosse retaggio soltanto di una certa classe, spaventata all’idea di venire sottoposta a un determinato regime sociale e in grado di sostentarsi anche fuori del proprio paese. Mi ingannavo.

Per il 95 per cento questi esuli sono dei poveri diavoli e le loro masserizie ne denunciano la miseria. Ammassate in lunghi capannoni alla Scomenzera e alla Giudecca, lunghe teorie di materassi sdruciti, di cassettoni traballanti, di letti sgangherati, di sedie e di tavoli zoppi, di gabbiuzze con canarini spauriti, di cagnetti bastardi legati con uno spago documentano l’origine proletaria dei loro proprietari.
Il comunismo e l’anticomunismo non c’entrano. Non fuggono i contadini perché sono anticomunisti, non fuggono gli operai e gli artigiani, non fugge il comunismo chi non ha nulla da perdere.
L’unico italiano di Pola (persino due pazzi: un maschio e una femmina, hanno voluto fuggire) che aveva mostrato intenzione di rimanere, è un professore comunista che, subito dopo la liberazione, fondò un circolo di cultura italo-slavo puntando sulla carta della fraternizzazione. Ieri ha chiesto anche lui di imbarcarsi.

Lo aveva chiesto anche il sindaco italiano e comunista di un paesetto vicino, di nome Facchinetti, ma non ha fatto in tempo: una pallottola lo ha freddato mentre preparava i bagagli.

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Profughi istriani si imbarcano sul “Toscana”

E ancora:

Si portano via anche i morti 

«Mentre Roma continuava a tergiversare, a Pola furono aperti gli uffici per l’evacuazione, distribuiti i certificati di profughi e noleggiati alcuni velieri per il trasporto delle masserizie. Le quali, secondo le disposizioni degli organizzatori, dovevano essere accatastate sui moli per essere spedite in Italia prima dei loro legittimi proprietari.

In quei giorni, l’intera città si trasformò in un’immensa falegnameria. Ogni casa rintronava di martellate. Assi, casse, cartoni diventarono merce preziosa per gli imballaggi. Soprattutto mancavano i chiodi, come abbiamo già visto, che furono razionati (tre etti per famiglia). Non esistendo i limiti imposti dagli jugoslavi nella zona «B», i polesani cercarono di portarsi via tutte le loro cose. Molti si recarono al cimitero per disseppellire i loro morti e portarsi via le ossa.

Quasi tutti staccarono un pezzetto di pietra dall’Arena per conservare un ricordo simbolico della loro città. Fu ‘imballata’ anche la salma dell’eroe Nazario Sauro per trasferirla a Venezia. Tutto ciò accadeva nei giorni delle feste di Natale e quello fu certamente il più triste Natale della gente di Pola.

Accatastate le masserizie lungo gli scali, cessata ogni attività lavorativa, venuta meno ogni possibilità di procurarsi generi di conforto, la popolazione viveva accampata nelle proprie case vuote in attesa di potersi imbarcare sulle navi che il governo di Roma avrebbe dovuto inviare.

Istria171128-002Anche la stagione si accanì contro i partenti. I trasporti delle cose e delle persone furono fatti sotto la tormenta di neve o sotto piogge interminabili che sfasciarono molte delle masserizie ammucchiate lungo le rive. Nel loro bel libro scritto a quattro mani, Nelida Milani racconta ad Anna Maria Mori: “Ricordo il suono dei martelli che battevano sui chiodi, il camion che trasportava la camera da letto di zia Regina al molo Carbon, avanzando tra edifici mortalmente pallidi di paura, e tutti gli imballaggi che si infradiciavano nella neve e nella pioggia. La grande nave partiva due volte al mese, dai camini il fumo saliva al cielo come incenso e insinuava negli animi il tormento sottile dell’incertezza e l’ombra dell’inquietudine; ognuno si sentiva sempre più depresso dall’aria di disgrazia che aleggiava sugli amici che si incontravano per strada.”

Via via il Toscana aveva infornato tutti i polesani: le famiglie bene, molti professionisti, il farmacista, l’ufficiale che ha sposato la cecoslovacca, il dentista che ha sposato l’ungherese, il cantante che ha sposato la slovena, il professore d’inglese che ha sposato l’italiana, la vedova di un ebreo, la bella Vanda che riceveva i soldati americani, lo scroccone di sigarette americane, l’ubriacone che, caldo della grappa in corpo, scioglieva la neve dove cadeva disteso, il vecchio suonatore di fisarmonica seguito dal suo bastardino, le sorelle Antoni che imbarcavano anche il padre moribondo, pur non potendo ragionevolmente pensare che il vecchio sarebbe tornato come speravano per se stesse, e neppure avrebbe raggiunto la destinazione che si erano proposte. Era partito anche il parroco di Gallesano, trascinandosi dietro un cassone pieno dei testi più amati, Sant’Agostino, Santa Teresa, e annunciando la fine del mondo per la domenica seguente. […]

Istria171128-006Partì il mondo dei mille mestieri, l’operaio e l’artigiano, il contadino e la tabacchina, l’ortolano, il bandaio, il carraio, l’impagliatore, il bottaio, il fornaio, il muratore, il veterinario: partirono gli operai di fabbrica, i fonditori, i fabbri, i meccanici della K. und K. Marine Arsenal, i motoristi e i tornitori di Scoglio Ulivi, i falegnami e i calzolai, lo stagnino, la rammendatrice, il pastaio, il barbiere, i garzoni di bottega, i pescatori con odore di salsedine, di ostriche e di alghe, i minuti artigiani di ogni cosa, dal vino ai mattoni, dal sego ai vetri, dai cappelli ai nastri, dalle paste alimentari al saldame, dalle barche ai libri, dall’opera lirica ai giornali. Partirono i padri dei ragazzi partigiani e poi anche gli ex partigiani. Invano avevano cercato di far fronte a una civiltà incomprensibile.

Che cosa avevano fatto per meritarsi quel mondo in cui sentivano di non avere alcuna possibilità di condurre una vita piena, realmente umana?»

(Corriere della Sera, dal nostro inviato Indro Montanelli)

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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