L’avventura era la nostra religione e Jack London era il suo profeta. La TV dei ragazzi il luogo dove la vivevamo. Quando la televisione irruppe nella nostra fantasia impossessandosene, i libri del californiano che aveva fatto mille mestieri prima di scoprirsi scrittore di successo li avevamo letti praticamente tutti.
Jack era il nostro numero uno, non tanto per come scriveva quanto per cosa raccontava. I suoi protagonisti erano quei cercatori d’oro, quei trappers, quegli avventurieri e quelle Giubbe Rosse a cui si era mischiato alla fine del secolo diciannovesimo, non resistendo al richiamo della gold rush, la corsa all’oro nel Klondike che fece impazzire mezzo mondo.
Ma in realtà erano tutti comprimari. I protagonisti veri – e questa fu la sua grande intuizione letteraria – erano animali. Le pagine scritte che London faceva scorrere sotto i nostri occhi ci portavano a sentire, a ragionare, a soffrire, a gioire, a vivere come vive un cane. In un contesto quanto mai ostile, la natura selvaggia e la prossimità del meno amichevole e più crudele degli animali, di cui il cane è considerato, ahilui, il miglior amico: l’uomo.
Jack London era stato in Klondike appena un anno, ma gli era bastato. Era tornato a casa povero come quando era partito, ma in compenso arricchito da esperienze che avrebbe saputo riversare magistralmente sulla carta. Ed i suoi fiumi d’inchiostro sarebbero diventati per diverse generazioni di ragazzi di tutto il mondo i grandi fiumi su cui navigava l’avventura con la A maiuscola.
Delle sue tante opere ce ne sono soprattutto due che sono diventate sinonimo di Jack London, marchio di qualità della sua letteratura leggendaria. Zanna Bianca ed Il richiamo della foresta (traduzione dell’intraducibile originale e ben più suggestivo americano Call of the wild) ci affascinarono e commossero mille volte, durante il percorso che i due cani da slitta compivano per ritornare rispettivamente alla civiltà ed alla libertà.
Alla fine di quelle storie, i nostri sensi si erano affinati come quelli di Buck, e le foreste che attraversavamo giocando e ripetendo le sue avventure erano quelle in cui l’uomo ed il cane erano tornati allo stato primitivo. Lo stato in cui avevano imparato ad apprezzare la rispettiva prossimità ed amicizia.
I due romanzi erano stati abbondantemente trasposti, o per meglio dire saccheggiati dal cinema. Quando arrivò la RAI, nel 1972, il suo progetto rischiava di essere uno dei tanti, serviva qualcosa di originale. Jack London era stato spesso autobiografico nei suoi romanzi, a cominciare da quel Martin Eden con cui la stessa RAI si sarebbe cimentata anni dopo. Ecco dunque l’idea di raccontare quell’anno incredibile in cui il giovanotto di San Francisco si improvvisò gold digger, e ne passò di tutti i colori. Quei colori con cui aveva affrescato poi le stanze immaginarie della nostra adolescenza.
Ad interpretare il protagonista fu scelto un attore di teatro che si stava affermando anche in televisione, dopo aver interpretato tra l’altro lo sceneggiato E le stelle stanno a guardare, adattamento del capolavoro di Archibald J. Cronin da parte del maestro dei registi sceneggiatori Anton Giulio Majano. Il fiorentino Orso Maria Guerrini si dimostrò all’altezza, e con la sua recitazione sobria ed a tratti magnetica restituì alla nostra insaziabile fantasia una Avventura del Grande Nord destinata a restare una pietra miliare della nostra TV degli anni verdi.
L’unico in grado di rubargli la scena fu manco a dirlo il cane Buck nella parte del cane Buck, la cui propensione a combinare guai avrebbe giocato un ruolo non secondario nella trama dello sceneggiato.
Jack e Buck. I tempi della Birra Moretti erano ancora lontani. Come sono ormai lontani oggi gli anni della nostra infanzia dorata.
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