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Kissinger: la Russia ha perso, e adesso?

Henry Kissinger se lo ricordano in pochi, ma fu segretario di stato durante una delle amministrazioni americane più controverse della storia di quel paese, quella guidata da Richard Nixon. Ed anche quella che prese, o cercò di prendere, decisioni che si sarebbero dimostrate di lunga e pesante portata.

Il figlio di ebrei tedeschi rifugiato negli USA prima della notte dei cristalli da grande sarebbe stato il primo americano, e uno dei pochi nella stanza dei bottoni di Washington, a capire che la politica estera del suo paese era – per dirla con Gino Bartali – tutta sbagliata, tutta da rifare.

Fu il primo a capire che l’America doveva uscire dal Vietnam e fare la pace con la Cina, rovesciando la situazione e giocando lei poi sul dualismo di quest’ultima con la Russia che allora si chiamava Unione Sovietica. Intuizione giusta, che purtroppo fu attuata come peggio non si poteva dai colleghi e successori di Kissinger.

Kissinger e Nixon alla Casa Bianca

Fu anche il primo a pensare, e questo è il lato oscuro della sua azione politica, che la dottrina di Monroe (“l’America agli americani!”) andava attuata fino alle estreme conseguenze sacrificando tutto il resto a cominciare dai diritti umani. In piena Guerra Fredda, per lui l’obbiettivo era impedire che i russi stabilissero teste di ponte sul continente americano, a qualunque costo. Isolata Cuba con l’embargo, in America Latina la CIA con l’avallo più o meno implicito di Kissinger favorì una serie di colpi di stato che trasformarono paesi come Cile, Argentina, Paraguay in altrettanti scannatoi.

Secondo lui e secondo la sua scuola di pensiero, il fine giustificava i mezzi. Ai posteri ed alle coscienze libere l’ardua sentenza. Ma al netto di questo pur pesante lato oscuro, non c’è dubbio che Henry Kissinger sia stato e rimanga la mente politica più brillante in campo internazionale. Un passo avanti a chiunque altro, senza remore o peli sulla lingua, neanche nei confronti dell’attuale amministrazione che governa il suo paese.

Ecco l’ultimo suo intervento pubblico. Henry Kissinger può piacere o meno, ma sfidiamo chiunque a non sottoscrivere dalla prima all’ultima queste sue parole.

“Fin dall’inizio dell’aggressione all’Ucraina bisognava evitare una vittoria della Russia. A maggior ragione bisogna evitare che cerchi una rivincita nucleare. Non possiamo permettere che l’uso di armi nucleari diventi convenzionale, si normalizzi. Non solo per quello che sarebbe il tremendo risultato immediato, ma per le conseguenze sull’interpretazione e la legittimazione del potere da parte di chi le usa. Non è ammissibile che la Russia raggiunga con le armi nucleari il risultato che non è stata capace di ottenere senza.
I dirigenti russi devono sapere che nel caso usino armi nucleari i termini per un accordo di pace diventeranno peggiori per loro, la Russia ne uscirà come una nazione più debole di prima.
L’Ucraina non va demoralizzata. Deve avere un ruolo primario nel processo di pace. Un dialogo, anche solo esplorativo, è essenziale in quest’atmosfera nucleare. Non è rilevante se Putin ci piaccia o no. Una volta che l’arma nucleare dovesse entrare in azione, il sistema mondiale subirebbe uno stravolgimento di portata storica. Non dobbiamo legare l’azione diplomatica alla personalità di chi ci sta di fronte. Sta a noi concepire un dialogo che preservi la nostra sicurezza ma ci riporti allo spirito della coesistenza. Il rovesciamento del leader avversario non deve apparire come una pre-condizione. Quando cadde il Muro di Berlino e cominciò la grande ristrutturazione dell’Est europeo, gli Stati Uniti cercarono di integrare tutta l’area in un ordine sotto la loro guida. Non fu saggio cercare di includere l’Ucraina nella Nato. Questa non è una scusa per l’aggressione di Putin. Ma il problema ora è se sia possibile una pace con lui. E questa va affrontata in un quadro più ampio: il futuro di lungo termine nelle relazioni fra la Russia e l’Europa, fra la Russia e l’Occidente. Una Russia che sia più consapevole dei propri limiti, vorrà essere parte dell’Europa oppure sceglierà l’Asia? Su questo dovremmo impostare il dialogo.
La Cina è sempre stata una sfida speciale per l’America, a causa delle sue dimensioni, oggi più formidabili che mai sul piano economico tecnologico e militare. Non abbiamo mai avuto a che fare con un Paese così imponente e la cui filosofia è praticamente opposta alla nostra. I cinesi considerano la storia come un processo continuo che si dipana su migliaia di anni. I singoli problemi — che noi affrontiamo uno per uno — li vedono come espressioni di quel processo. Durante le ultime due amministrazioni americane tra Washington e Pechino è prevalso lo scontro. Occorre ristabilire un dialogo sul tema soverchiante: una guerra tra le superpotenze avrebbe conseguenze peggiori della Prima e Seconda guerra mondiale. Come minimo i dirigenti americani e cinesi riconoscano che questo pericolo esiste, che loro sono gli unici ad avere la possibilità di superarlo. Di conseguenza mettano a punto dei meccanismi preliminari per parlarsi nei primi stadi di una crisi. E poi ci sono i grandi temi su cui la cooperazione bilaterale è indispensabile: dal cambiamento climatico al futuro delle tecnologie.
Le condizioni per una nostra leadership mondiale si sono deteriorate, in particolare per la diffusione delle armi nucleari. Più che mai, oggi occorre essere creativi. I tre requisiti fondamentali per fare politica estera sono:
Studiare la storia. Studiare la storia. Studiare la storia”

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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