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La febbre dell’oro

Nella foto, gold diggers sulle rive di un torrente californiano

C’era qualcosa di strano nell’acqua del torrente dove James W. Marshall controllava il lavoro degli operai che di notte scavavano per allargarne il bacino e permettere di giorno alla sua segheria di avere acqua a sufficienza per poter lavorare.

Il corso d’acqua era l’American, così battezzato dai californiani in onore della federazione di stati a cui stavano per unirsi, dopo una guerra di indipendenza dal Messico del generale Antonio Lopez de Santa Ana non meno sanguinosa di quella condotta dal Texas che aveva avuto a Fort Alamo il suo episodio culminante.

La località era Coloma, un avamposto della civiltà a 60 chilometri circa dal forte che John Sutter, un immigrato svizzero arrivato nella zona nel momento in cui le ostilità tra i gringos e i messicani iniziavano a tradursi in guerra aperta, aveva costruito senza sapere bene da quale delle due parti avrebbe dovuto maggiormente difendersi: gli yankees o i soldados di santa Ana che all’altro forte, Alamo, avevano massacrato senza pietà la guarnigione dei volontari per la libertà del Texas?

La Repubblica indipendente di California era nata nel 1846, la sua annessione agli Stati Uniti d’America sarebbe stata celebrata nel febbraio di quell’anno, il 1848. Quando Marshall fece la sua scoperta sulle rive dell’American, mancava ormai solo un mese all’aggiunta di un’altra stella sulla bandiera a stelle e strisce che sventolava dall’Atlantico al Pacifico.

L’uomo che la mattina del 24 gennaio era fermo a Sutter’s Mill sulle rive dell’American e non sapeva ancora se credere ai propri occhi era stato un pioniere a sua volta, ma il suo ranch era stato razziato dai messicani mentre lui combatteva con il generale Fremont ed il Battaglione California contro Santa Ana. Era tornato a casa da americano libero, ma completamente rovinato. John Sutter, l’uomo che voleva sfondare nel commercio del legname, gli aveva offerto di entrare in società: lui ci avrebbe messo il capitale, Marshall la sua competenza organizzativa.

La piccola ansa dell’American a Coloma gli era parsa il punto adatto per aprire la segheria, ma la portata del corso d’acqua era insufficiente. Di giorno, dunque, gli operai lavoravano a segare tronchi d’albero, di notte ad allargare il letto del fiume. La mattina presto Marshall controllava il lavoro svolto e riferiva al socio. La mattina di quel 24 gennaio ebbe da riferirgli di un fatto nuovo, clamoroso, incredibile. Quel luccichio che aveva visto sulle rive era quello delle pepite d’oro. Oro a 23 carati, 96% di purezza.

Marshall e Sutter cercarono di tenere per sé la scoperta, ma il segreto durò lo spazio di pochi giorni. Mentre a San Francisco, la nuova capitale federale provvisoria, si dava il via ai festeggiamenti per l’annessione della California all’Unione, a Coloma iniziava invece una kermesse del tutto diversa, fatta di bramosia, di follia, di isteria collettiva senza precedenti. La grande corsa all’oro californiano cominciò così, con l’afflusso massiccio di migliaia di desperados, cercatori d’oro improvvisati provenienti da ogni angolo del paese ed anche dal vecchio continente.

La California fu soprannominata in breve tempo The Golden State, nome che riecheggiava quello di El Dorado affibbiatole dai Conquistadores spagnoli che per primi avevano trovato – o sognato di trovare, basandosi sulle leggende tramandate dagli indios che vivevano nella zona – il metallo prezioso nei corsi d’acqua della zona. Il nome sarebbe rimasto al circondario dove Marshall aveva trovato per primo l’oro, molto tempo dopo che l’ultimo cercatore deluso aveva ormai abbandonato la El Dorado County, e fino ai giorni nostri.

Delle migliaia di cavallette che si riversarono nella contea, nel resto dell’Alta California, e poi su fino al Canada ed all’Alaska, furono pochi, pochissimi quelli che si arricchirono mettendo le mani su filoni d’oro importanti. La maggior parte trovarono a malapena di che sostentarsi giorno dopo giorno, trasformandosi poi in avventurieri d’altro tipo o ritornando ad essere normali pionieri, o riprendendo la via da cui erano venuti. Come quei Sutter e Marshall che furono travolti per primi dalla loro stessa scoperta, espropriati legalmente o di fatto dei loro possedimenti, ridotti a chiudere la segheria di Sutter’s Mill e ad andarsene. Per ritornare quando la febbre dell’oro si era ormai spenta, almeno nella sua fase più virulenta, dopo il 1855.

Nel frattempo, la California si era rapidamente ed impetuosamente trasformata da terra di pueblos rurali di campesiños e hacienderos come quelli che avevano assistito alle imprese di El Zorro narrate nel romanzo di Johnston McCulley a terra promessa di ogni avveniristico sogno di progresso come quella che, tra la fine del secolo diciannovesimo e l’inizio del ventesimo, avrebbe concentrato lungo quel tratto di costa del Pacifico una tale ricchezza economica da permettere la nascita di grandi industrie, compresa quella – il cinema – che avrebbe raccontato le imprese di Zorro nella vecchia California spagnola con pari suggestione rispetto al romanzo.

E tutto questo grazie ad un imprenditore del legname che una mattina di gennaio del 1848 aveva cercato l’acqua e aveva trovato l’oro, ed all’arrivo in massa di cercatori di avventura, visionari, avanzi di galera e umanità varia che nel giro di pochi anni aveva dato i natali a intere città per poi trasformarle in ghost towns, città morte, dopo averle abbandonate. E soprattutto aveva movimentato l’economia di un paese facendo in soli sette anni ciò che nel resto dell’Unione era stato fatto in due secoli.

Lo Stato d’Oro avrebbe raccontato l’epopea degli Stati Uniti d’America come nessun altro.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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