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Martin Luther King, la fine del sogno

I have a dream.....

I have a dream…..

Il 4 aprile 1968 a Memphis, Tennessee, quegli spari secchi, provenienti da lontano, da qualcosa di più profondo del Sud degli Stati Uniti d’America, risuonarono di nuovo, letali.

Lo avevano già fatto il 22 novembre 1963 a Dallas e a New York il 21 febbraio 1965. Lo avrebbero fatto di nuovo a Los Angeles il 5 giugno di quello stesso 1968. Altrettanti schiaffi con cui gli americani, di ogni colore, si sarebbero bruscamente risvegliati dal sogno americano.

Dopo JFK e Malcom X, a Memphis il destino chiamò a sé Martin Luther King, il reverendo afroamericano che aveva dato contorni precisi a quel sogno. A Washington, il 28 agosto 1963 durante la più celebre delle marce per i diritti civili, l’uomo che aveva ereditato dal Mahatma Gandhi il testimone della lotta non violenta per l’emancipazione delle razze segregate aveva annunciato di avere fatto una nuova versione di quel sogno. I have a dream era diventata la parola d’ordine di tutti coloro che aspettavano la completa attuazione della costituzione americana dai tempi di Abraham Lincoln, e che credevano che ai tempi di John Fitzgerald Kennedy e della Nuova Frontiera quel momento fosse finalmente giunto.

Il destino di King si era compiuto forse tredici anni prima, allorché Rosa Parks aveva rifiutato di cedere il posto ad un passeggero bianco a Montgomery, Alabama, sull’autobus che la portava al lavoro. Il pastore nero della chiesa battista di Montgomery non poteva tirarsi indietro. Il dottor King non lo fece, e qualcuno cominciò quel giorno ad armare il fucile che gli avrebbe tolto la vita.

Come JFK e suo fratello Bobby, come Malcom X che lo precedette nella tomba a New York tre anni prima, Martin Luther King aveva nemici potenti. Ku Klux Klan, F.B.I. (all’epoca guidato ancora dal fondatore, il razzista e destrorso J. Edgar Hoover che vedeva King in particolare come il fumo negli occhi), il Sud razzista che una volta era stato confederato e secessionista pur di non ammettere che anche i neri portati dall’Africa in schiavitù erano esseri umani e come tali soggetti di diritto, non sapremo mai chi fu veramente a premere il grilletto a Menphis, 50 anni fa. Come non sapremo, anche se in realtà immaginiamo, chi lo aveva premuto a Dallas, a New York, e di lì a poco a Los Angeles.

Nel 1968, con l’ultimo attentato a Bobby Kennedy, sparì la Nuova Frontiera e l’illusione che la lotta anti-segregazionista per i diritti civili potesse concludersi pacificamente e con successo. Abe Lincoln aveva pensato di reimpatriare in Africa gli schiavi affrancati durante la Guerra Civile, poiché conosceva i suoi compatrioti e sapeva che il sangue non avrebbe cessato di essere versato dopo l’armistizio di Appomatox nel 1865. Cento anni dopo, gli eroi del sogno americano destato da Rosa Parks e portato da Martin Luther King fin sui gradini del Campidoglio e del Lincoln Memorial furono spazzati via da quelle salve di spari secchi, provenienti da lontano, laceranti ben più della carne umana a cui erano diretti. Il Sud non aveva dimenticato, ed anche qualcuno al Nord, c’é da immaginare.

Gli ultimi istanti di vita di Martin Luther King sul balcone del Lorraine Motel

Gli ultimi istanti di vita di Martin Luther King sul balcone del Lorraine Motel

Martin Luther King, come Kennedy, fu abbattuto da un colpo alla testa che lo raggiunse sul balcone della sua camera al Lorraine Motel a Mulberry Street. Un tiro da tiratore scelto, non da fanatico sudista o da esagitato comunista come Lee Harvey Oswald. Non ci fu stavolta una Commissione Warren istituita per accertare una verità che molti nell’establishment non volevano fosse accertata. E due mesi dopo, con gli ultimi spari diretti al giovane fratello di JFK candidato a succedergli alla presidenza degli Stati Uniti, i giochi furono chiusi.

La parola passò alle Black Panthers di Angela Davis. I neri d’America si richiusero nei ghetti dove tornarono a coltivare un razzismo di risposta a quello dei bianchi. Il sogno americano naufragò definitivamente nella presidenza Nixon, nel disastro del Vietnam, nella crescita scomposta e sperequativa di una società e di un paese che avrebbe vinto tutte le sue sfide esterne a cominciare dalla Guerra Fredda, ma mai quella interna di diventare una società veramente integrata.

Bianchi e neri, rossi e gialli, continuano a guardarsi di traverso, a detestarsi, a respingersi a vicenda. La nazione un giorno avrebbe eletto alla massima carica dello Stato un uomo di colore. Ma come il resto di un mondo ormai preda ad una ipocrisia che ha sostituito completamente l’intelligenza ed il buon senso, avrebbe smesso anche di pronunciare la parola nero per paura che suonasse con disprezzo. Con lo stesso disprezzo di cinquanta anni fa.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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