Accadde Oggi Evidenza

Mi ricordo

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Il 23 maggio 1992 era un sabato. Eravamo giovani, allora, e i sabati spesso li passavamo fuori casa, appena arrivava la bella stagione. Lontano da TV, radio, giornali, lontano da tutto. Anche e soprattutto dall’informazione, allora era possibile, non esistevano ancora i cellulari. Era possibile tornare a casa la sera e non sapere nulla di nulla, nemmeno che il mondo era saltato per aria.

La mattina dopo, alzandosi con comodo in relax perché era domenica, accendere la Tv era il primo di una serie di gesti meccanici che il nuovo che avanzava stava insinuando nelle nostre abitudini. Ricordo che appena l’immagine apparve sullo schermo, rimasi a bocca aperta alla vista di quella devastazione. Una strada esplosa e ridotta ad un campo di battaglia. Era un momento in cui i cronisti si erano presi una pausa, per mancanza di aggiornamenti o necessità di riprendere fiato. L’immagine fissa del cratere e dei rottami parlava da sé, in silenzio.

Il difficile, sulle prime, fu capire di cosa raccontava. Una tragedia, senz’altro, in un periodo che di tragedie non ne faceva mancare. Nel Golfo Persico si era conclusa da poco una guerra, la prima di quel nome. In Jugoslavia ne avevano appena cominciata un’altra, civile, che ci avrebbe abituati a immagini di quel genere se non peggiori tutti i giorni, a pranzo e cena. Come i nostri genitori, e noi piccoli, eravamo stati abituati all’orrore quotidiano dalla guerra del Vietnam.

Ma no, mi dissi istintivamente. Questa è roba di casa nostra. C’era un che di familiare, anche se il cartello del bivio stradale PALERMO – CAPACI non veniva inquadrato, o non si leggeva bene. Ma il paesaggio, la tensione percepita in silenzio in quell’immagine ferma e muta erano inconfondibili, nostrani. Casa nostra….. poi di colpo capii. Cosa nostra.

L’ennesima strage di mafia, da più di dieci anni un altro viatico, un altro fedele compagno di quei nostri giorni, dei nostri pranzi e delle nostre cene. Dai tempi del giudice Terranova, a fine anni settanta, la mafia più ancora del terrorismo aveva fatto invecchiare precocemente la nostra gioventù. Ci aveva tolto subito l’illusione, più ancora delle BR, di essere nati e cresciuti nel migliore dei mondi possibili, dopo un’infanzia vissuta negli irripetibili anni Sessanta.

Il pensiero successivo fu, a chi è toccato stavolta? Ci eravamo lasciati – io e la cronaca nera del TG – con Salvo Lima, freddato il 12 marzo precedente a Palermo. Qual era il nome da aggiungere ad una lista ormai lunghissima?

Non pensavo proprio a Giovanni Falcone, all’epoca ci sembrava a tutti invincibile, uno di quegli eroi da cinema americano che come Elliot Ness finiscono sempre per trionfare. Non possono non trionfare. Quando il nome suo, della moglie e degli agenti di scorta uscì finalmente dal sonoro della mia televisione fu il momento dell’acquisizione di una consapevolezza addirittura peggiore di quella strettamente connessa alla tragedia che avevo sotto gli occhi.

Il giudice coraggioso era stato solito ripetere la frase secondo cui «la Mafia, come tutti i fenomeni umani, non é invincibile, interminabile. Si può sconfiggere». E noi tutti gli avevamo creduto. In quel momento appresi, apprendemmo che era vero anche il contrario, che lo Stato come tutti i fenomeni umani non era invincibile. Poteva essere sconfitto. Era stato sconfitto. Forse non si sarebbe più ripreso.

Riguardo sempre ogni anno la foto dei due giudici, l’esuberante Giovanni e l’amico Paolo, più riservato e malinconico d’indole, che lo guarda come offuscato da una sottile intima vena di perplessità. Come se Borsellino in fondo nutrisse un briciolo di fiducia in meno di Falcone sulle certezze che questi esprimeva ad ogni pié sospinto, a proposito della sconfitta della criminalità organizzata, delle idee che camminano sulle gambe di più uomini, della paura da vincere ogni giorno per morire una volta sola.

Ogni anno, ripenso alla moglie di Schifani che grida il suo appello in chiesa, a Palermo, ai funerali di Stato del marito e delle altre vittime di Capaci. A quanto dovettero – insieme a noi tutti – sentirsi soli i familiari e i sopravvissuti. A cominciare da quel giudice Paolo che con la sola compagnia della sua borsa e della sua agenda rossa cercò di continuare da solo dopo quel 23 maggio fino al 19 luglio, quando il destino lo attese a sua volta in Via D’Amelio. Chissà se a mitigare la sua solitudine e la sua malinconia bastavano più i ricordi dell’esuberanza dell’amico appena sepolto. Chissà se l’ultimo dei giudici coraggiosi morì una volta sola. O più volte, ogni giorno, sentendo appressarsi la sua sorte.

Ogni anno non posso non vivere con fastidio le rievocazioni retoriche. Tutti devono dire, pubblicare, sottolineare qualcosa. E con quello siamo a posto, la funzione è finita, si può passare ad altro, domattina se non addirittura già oggi pomeriggio. Più odiose di tutto il resto, quelle istituzioni repubblicane e le persone che le incarnano, capaci di raggiungere vette di ipocrita retorica negate a qualsiasi comune mortale. Capaci di infangare qualsiasi memoria civile, qualsiasi orgoglio e tristezza gelosamente custoditi nei nostri cuori, per il solo fatto di esistere. E di manifestarsi.

Leonardo Sciascia li chiamava i professionisti dell’Antimafia. Quando sento un Pietro Grasso, un Angelo Alfano, perfino – ebbene sì – un Sergio Mattarella parlare di Cosa Nostra, mi viene una sorta di lupus eritematoso. Devo cambiare canale o spegnere, chiedendo scusa a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E alle stesse mie reminiscenze di ragazzo che insieme a tanti altri ragazzi in quei primi anni novanta coltivava l’illusione che i migliori anni della nostra vita dovessero ancora arrivare. Fossero finalmente alle porte, dopo gli anni di piombo, le guerre di mafia, le guerre fredde e calde.

Falcone, Borsellino e Caponnetto, in uno dei rari momenti di spensieratezza

E’ un paradosso che la miglior commemorazione di Giovanni Falcone e della strage di Capaci la metta in scena regolarmente proprio la Mafia, con quei sussulti di guerra tra cosche, l’ultimo quattro anni fa culminato nell’uccisione in pieno centro di Palermo del boss Giuseppe Dainotti. Come a dire, guardate che ci siamo sempre, abbiamo giocato a fare gli Al Pacino – Michael Corleone negli ultimi anni, riconvertendoci alla Borsa e agli investimenti, ma siamo sempre quelli di Marlon Brando – Vito Corleone. E di Luca Brasi.

Non è vero quello che dice Angelino Alfano. La mafia non uccide d’estate, uccide quando gli pare. E può essere sconfitta, come diceva Falcone, ma a condizione che l’antimafia non duri solo un giorno, o al massimo due o tre, il 23 maggio, il 19 luglio, il 3 settembre.

Per questo, i giorni della commemorazione sono proprio quelli che mi danno più fastidio. Leonardo Sciascia non mi piaceva, da ragazzo. Nella mia cultura incompleta, lo trovavo troppo imperscrutabilmente siciliano, nei suoi romanzi non c’era spazio per la speranza. E invece ho dovuto ricredermi da grande. Lui era un grande di sicuro. Per esempio, quando diceva: «La mafia si combatte non con la tensione delle sirene, dei cortei e della terribilità. La mafia si combatte col diritto».

In questi anni, ogni anno, di questi tempi avrei voluto una cosa sola. Ritornare a quella mattina del 24 maggio, una domenica di tanti anni fa, e accendere di nuovo la televisione e al posto della fine del mondo trovare una di quelle tante trasmissioni idiote che ci accompagnavano allora e ci accompagnano tutt’ora, nella nostra quotidianità, con sempre minor senso ma sempre più dolcemente anestetizzanti.

Giovanni Falcone sarebbe ancora vivo, noi tutti avremmo quasi trent’anni di meno, le illusioni ancora intatte, un paese in cui si può pensare ancora di vivere decentemente, malgrado tutto. E la Mafia sarebbe quella della retorica e dei libri come quello di Alfano. Sciascia mi sarebbe ostico, come mi era allora, e perfino lui ne sarebbe contento.

In questi anni, in luogo della strage di Capaci avremmo avuto comunque la solita promenade di incapaci. Ma penseremmo ancora, sempre con Sciascia, che «una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano».

Al bivio di Capaci, siamo saltati in aria tutti.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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