Oggi avrebbe compiuto gli anni. Era stata da giovane, suo malgrado, l’icona della sinistra antiamericana, anti-israeliana, anti-occidentale, antitutto. Aveva finito i suoi giorni coraggiosamente combattendo con pari forza un male incurabile e gli insulti di quella stessa sinistra, nel frattempo ribattezzatasi Partito Democratico, scopertasi bersaglio delle sue critiche feroci sempre a causa di quell’antioccidentalismo ormai degenerato nel collasso della nostra società e dei nostri valori.
Oriana Fallaci era stata la nostra voce dal Vietnam quando tutti gridavano in piazza YANKEE GO HOME, poi era stata i nostri occhi nella Palestina di Yasser Arafat, poi nella Grecia di Alekos Panagoulis e della lotta al regime dei colonnelli. Da bambina, aveva fatto la staffetta partigiana (come tutta la sua famiglia, del resto). Ce n’era di che santificarla, a sinistra, e infatti per lungo tempo fu santificata.
Poi, lentamente, diradatosi il fumo della Guerra Fredda e degli Anni di Piombo, anche lei emerse finalmente per quello che era: per dirla con Montanelli (altro toscano scomodo come lei), soltanto una giornalista. Che per di più aveva scelto di vivere negli Stati Uniti, tra quegli yankees di cui aveva raccontato la sconfitta ed il ritorno a casa, poiché si trovava sempre meno a suo agio in Europa e in Italia, dove ormai il clima culturale non le si confaceva più.
Quando, dopo l’11 settembre 2001, il mondo intero fu costretto a risvegliarsi nel boato del crollo delle Torri Gemelle e, come sempre succede in questi casi, ognuno di noi fu costretto (che gli piacesse o no) a prendere una posizione, lei non ebbe dubbi, un solo attimo di esitazione su quella da adottare. Che evidentemente maturava da tempo, vista la forza esplosiva con cui uscì allo scoperto.
Credo di avere letto pochi libri più avidamente e con maggiore soddisfazione di La rabbia e l’orgoglio. Credo di avere ringraziato Oriana in ogni istante per aver dato le parole giuste ad ogni mia sensazione, ad ogni mia idea fino a quel momento inespressa, alla rabbia che provavo anch’io senza saperla incanalare in quella che per me comunque istintivamente era la giusta direzione.
Bisogna aver vissuto a Firenze a cavallo tra la fine del XX secolo e l’attentato alle Torri per contestualizzare e capire bene fino in fondo quello che sto cercando di dire. Bisogna ricordare la rabbia, il disgusto, la sensazione di impotenza che dava a molti di noi fiorentini la vista quotidiana di quella tendopoli – orinatoio a cielo aperto che era stata allestita con la connivenza delle autorità comunali in Piazza del Duomo.
A tanti montava la bile in corpo, ma a pochi, forse solo ad Oriana riuscì ad esprimere adeguatamente quel sentimento: a quello sconcio ci aveva portato la politica di accoglienza sbracata praticata a Firenze, da La Pira in poi, in modo acritico ed esclusivamente basandosi sull’interesse politico e/o su un moralismo superficiale.
Questi erano i risultati. Questo era il declino della nostra civiltà, che non avrebbe saputo accogliere degnamente chi aveva veramente bisogno, e che presto avrebbe espulso anche noi stessi.
Non si trattava di appoggiare George W. Bush e i suoi attacchi militari a nemici reali o fantomatici. Si trattava di svegliarsi, e recuperare i propri valori, prima di ritrovarsi (come sta puntualmente succedendo) ad ossequiare quelli di popoli – mi sia consentito dire e pazienza se qualcuno mi accuserà di fascismo, xenofobia, e quant’altro – molto meno avanti di noi nella scala del progresso e dell’evoluzione.
Oriana è morta tra i lazzi e gli insulti di tutti quei meschini figuri che in Italia vengono scambiati oggi per intellettuali e/o politici d’avanguardia. A me personalmente, guai a chi me la tocca. E soprattutto guai a chi tocca il patrimonio inestimabile di tutto quello che ha lasciato scritto, a beneficio di chi ha un cervello e ancora la voglia di usarlo.
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