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Una storia del Grande Nord

Il 2 febbraio 1925 l’ultima slitta arrivò a Nome, in cima alla penisola di Seward, dopo un viaggio di 1.600 chilometri. La corsa contro il tempo era vinta, la medicina antidifterica era arrivata in tempo da Anchorage e l’infezione poteva essere combattuta con successo.

L’epidemia di difterite si era scatenata nella città all’estremo nordovest dell’Alaska nel pieno di un rigidissimo inverno. Talmente rigido che non era pensabile di far giungere i soccorsi dalla capitale per via aerea o maritima.

Balto e il suo padrone, 1925

Balto e il suo padrone, 1925

Restava una sola possibilità, quella che per secoli gli Inuit e poi di recente anche i colonizzatori bianchi, arrivati dalla Russia per vendere pellicce o per cercare oro dagli Stati Uniti (i cosiddetti lower 48, gli Stati a sud che prima dell’Alaska avevano ottenuto la qualifica di Stato dell’Unione con relativa stella sulla bandiera), avevano utilizzato prima che il progresso mettesse a disposizione i cavalli a motore: la slitta trainata da cani, i cosiddetti sled dogs.

Il Grande Nord dai tempi di Jack London ne aveva accumulate di leggende, ma questa le avrebbe superate tutte. Il 29 gennaio 1925 venti equipaggi formati da mute di cani e dal rispettivo musher (il conduttore, in dialetto locale) partirono da Anchorage con il loro prezioso carico di medicinali. 127 ore dopo, poco più di cinque giorni trascorsi attraverso il gelo e la bufera che imperversavano nel più inospitale dei territori abitati dall’uomo, arrivarono a Nome, dall’altra parte dell’Alaska.

Concorrente della Iditarod, ai giorni nostri

Concorrente della Iditarod, ai giorni nostri

A perenne memoria di quell’impresa, ogni anno sullo stesso percorso – la pista denominata Iditarod, in lingua Inuit -, a partire dagli anni settanta si ripete la Iditarod Trail Sled Dog Race, una corsa riservata alle slitte trainate dai cani. La corsa si svolge pressappoco sullo stesso percorso del 1925, costeggiando per un lungo tratto lo Yukon, il fiume dei cercatori d’oro. Il periodo è la fine di marzo, un momento dell’anno e della stagione decisamente più favorevole di quello della storica corsa contro la difterite.

Balto200202-002A perenne memoria, c’é anche la statua eretta in Central Park a New York. La sua storia la racconta un film a cartoni animati di qualche anno fa, prodotto dalla Amblimation, lo studio di animazione di Steven Spielberg. E’ la stessa storia del 1925, appena un po’ più romanzata. Come se le storie del Grande Nord, Jack London insegna, non fossero già di per se stesse affascinanti romanzi.

La ventesima slitta, quella che arrivò per ultima a Nome la mattina del 2 febbraio, era trainata da un cane-lupo che si chiamava Balto. Come gli altri, era un animale mezzosangue, metà cane e metà lupo, fatto apposta per sopravvivere e tirare le slitte in quell’ambiente estremo.

«Ti voglio dire una cosa, Balto. Un cane non può fare questo viaggio da solo. Ma, forse… un lupo sì.», dice l’oca russa Boris al suo amico in procinto di intraprendere la più difficile delle imprese. Il flm è un gioiellino, come ogni cartoon prodotto dalla Amblin Entertainment del resto. E’ impreziosito dalla colonna sonora di James Horner, e da questa struggente Reach for the light di Steve Winwood, che scorre sull’ultima rivelazione prima dei titoli di coda. L’ultimo capitolo della storia narrata nel film.

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La piccola Rosy, salvata tanti anni prima dalla malattia grazie alla corsa di Balto e dei suoi simili, adesso è la nonna che porta i nipotini a giocare sotto la statua dedicata al suo vecchio amico. E può di nuovo ringraziarlo, ripetendogli la stessa frase di settanta anni prima.

«Grazie, Balto. Sarei stata persa senza il tuo aiuto.»

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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