Una fila di uomini che si inerpicano sul punto più alto del tetto di quell’edificio dove li aspetta l’ultimo elicottero. L’ultima via di fuga da agguantare con la forza della disperazione. L’edificio è il numero 22 di Long Street, l’ambasciata americana di Saigon, capitale del Vietnam del Sud. Il momento è il pomeriggio del 30 aprile 1975. Il giorno che finì la guerra del Vietnam.
E’ una delle foto simbolo del ventesimo secolo, perché ne coglie uno dei momenti più drammatici: la prima e a tutt’oggi unica sconfitta americana in una guerra dichiarata, l’atto conclusivo di un conflitto che fu soprattutto un evento epocale, uno spartiacque per una intera generazione non solo dal punto di vista storico-politico, ma anche e soprattutto da quello della coscienza.
Saigon giai phong. Significa Saigon è liberata, in lingua vietnamita. Oppure Saigon è caduta, dal punto di vista degli sconfitti, di coloro che salivano su quegli elicotteri che facevano la spola dal tetto dell’ultima ridotta americana in Vietnam, prima dell’arrivo ormai imminente dell’Esercito del Popolo. Questa fu la notizia che quarant’anni fa sorprese un mondo che sapeva da tempo quale sarebbe stato l’esito di quel conflitto nel lontano sud-est asiatico che tutte le sere per anni era entrato nelle case all’ora del telegiornale fino a diventare un compagno abituale, ma che non se lo aspettava così presto, così repentino.
Da quando il leader comunista Ho Chi Minh aveva sollevato il paese contro l’amministrazione coloniale francese subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, il Vietnam era sempre stato in guerra. I francesi erano stati finalmente sconfitti nel 1954 a Dien Bien Phu e il trattato di Ginevra aveva posto fine al periodo coloniale. A quel punto il paese si era diviso in due parti, il nord controllato dal Vietminh, l’esercito di liberazione filocomunista di Ho Chi Minh e del leggendario generale Nguyen Giap, ed il sud governato da Bao Dai – l’ultimo imperatore, messo sul trono dai francesi – e dal suo primo ministro Ngo Dinh Diem.
Diem aveva poi deposto l’imperatore e creato una repubblica che aveva cercato di resistere alla crescente influenza comunista del regime del nord, supportato da Unione Sovietica e Cina. Fatalmente la sopravvivenza del governo di Saigon era legata alla logica della Guerra Fredda e dei suoi schieramenti. Diem chiese ed ottenne dagli Stati Uniti d’America un sempre maggiore coinvolgimento nel Sud-Est asiatico, in quel momento la zona più calda del mondo, la principale nella quale la Guerra Fredda era diventata guerra guerreggiata.
Al tempo dell’amministrazione Kennedy, gli U.S.A. passarono da un sostegno più che altro logistico e finanziario per il tramite dei cosiddetti consiglieri militari ad un coinvolgimento diretto mediante l’invio di truppe. Nel 1963 a poca distanza furono assassinati sia il presidente Diem che il presidente Kennedy. I loro successori a quel punto si trovarono totalmente impelagati in una guerra senza quartiere contro il regime di Hanoi.
Gli Stati Uniti pensavano di ripetere una guerra come quella che avevano combattuto nel Pacifico dal ‘42 al ‘45 oppure in Corea dal ‘50 al ‘53. La previsione si rivelò ben presto infondata. Il Vietnam si organizzò per combattere una vera e propria guerriglia partigiana, al nord e soprattutto al sud dove i Vietcong, l’esercito di liberazione popolare, dimostrarono ben presto di poter portare la guerra fino a ridosso del quartier generale americano.
All’inizio del 1968, anno che avrebbe segnato in tutto il mondo occidentale una svolta epocale ed uno spartiacque delle coscienze, l’Offensiva del Tet (il capodanno vietnamita) condotta dai Vietcong su vastissima scala contribuì a scuotere quelle coscienze soprattutto negli U.S.A., fiaccando ulteriormente una voglia di combattere che i ragazzi americani non sentivano già in partenza.
La sporca guerra, come fu definita un po’ da tutta la società civile occidentale malgrado facesse parte della logica dei blocchi contrapposti che aveva imperato fino a quel momento, si trascinò fino al 1973. Finché l’amministrazione Nixon pose fine ad un intervento militare statunitense ormai assolutamente impopolare e dai costi spaventosi con gli accordi di pace di Parigi. L’impegno degli U.S.A. regredì al livello iniziale del 1960. Gli ultimi consiglieri militari, soprattutto agenti della C.I.A., lavorarono finché fu loro possibile per tenere in piedi il governo del sud di Nguyen Van Thieu, ormai resosi odioso a tutta la popolazione vietnamita per la sua corruzione e la sua brutalità.
I Vietcong avevano già vinto in prospettiva quando nel gennaio del 1975 dettero il via alla campagna di Ho Chi Minh, l’attacco finale al sud intitolato alla memoria del leader comunista scomparso nel 1969. Malgrado l’esercito americano avesse ormai lasciato quasi completamente l’area, nessuno si aspettava una vittoria così fulminea delle forze vietnamite, malgrado Giap e i suoi collaboratori avessero abituato il mondo alla loro genialità tattico-strategica. Alla metà di aprile il destino degli ultimi americani e dei loro alleati sudvietnamiti era segnato, restava da conquistare solo la capitale e l’intero Delta del Mekong sarebbe stato in mano Vietcong.
Gli ultimi giorni del mese furono impiegati dall’ambasciata americana per l’evacuazione del proprio personale, che diventò frenetica, parossistica il 29, allorché l’aeroporto Tan Son Nhat fu reso inservibile dai bombardamenti nordisti. A quel punto, l’unica via di fuga dal Vietnam fu costituita dalla più ingente e clamorosa evacuazione per mezzo di elicotteri della storia. L’operazione Frequent Wind portò via gli ultimi americani dal tetto dell’ambasciata e consegnò alla storia del ventesimo secolo e della Guerra Fredda una delle sue immagini più significative e suggestive.
Il 1° maggio, Saigon era già stata ribattezzata Ho Chi Minh City, in onore del leader scomparso che aveva ispirato trent’anni di guerre di indipendenza. Al Vietnam su cui sventolava la bandiera rossa restava una delle più grandi vittorie di Davide contro Golia della storia, a prescindere dalla connotazione politica che l’evento inevitabilmente assunse in quel momento storico. Una vittoria di cui peraltro fece subito pessimo uso proseguendo la guerra contro la vicina Cambogia, a quel punto governata dal regime gemello dei Khmer Rossi di Pol Pot.
Al mondo intero rimase la sensazione che un’epoca si fosse irrimediabilmente chiusa e che una nuova società fosse alle porte. Nella mitologia post ’68 la guerra del Vietnam occupa un posto importante, nel bene e nel male. Speranze e delusioni degli anni settanta e dei successivi passarono tutte per località dai nomi esotici del Delta del Mekong e del Golfo del Tonchino. Ho Chi Minh finì per sostituire Fidel Castro, Che Guevara e Mao Tse Tung nell’iconografia comunista. La storia americana e occidentale cambiarono per sempre, irrevocabilmente.
E soprattutto rimase – e rimane – una immensa stele commemorativa nel Cimitero Nazionale di Arlington, in Virginia. Il Vietnam Memorial riporta i nomi degli oltre 58.000 ragazzi americani caduti o dispersi nel Sud Est Asiatico nella più grande e sanguinosa guerra guerreggiata dell’epoca del mondo diviso in due blocchi. Dell’oltre un milione e mezzo tra soldati e civili vietnamiti caduti nello stesso periodo e nelle stesse battaglie ovviamente non rimane nome e cognome. Soltanto la memoria collettiva.
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