«Se una legge è ingiusta, un uomo non ha solo il diritto di disobbedire: è suo dovere farlo», disse una volta Thomas Jefferson, uno dei padri della rivoluzione americana del 1776 ed anche – per come è andata a finire – della democrazia moderna.
E’ tutta lì, in quella frase così semplice da sembrare quasi lapalissiana, la democrazia. Gli anglosassoni erano abituati dai tempi di Robin Hood a non accettare leggi che non fossero state approvate da Parlamenti realmente rappresentativi. Tutto quello che hanno fatto dopo di qua e di là dell’Oceano, è stato mera conseguenza, compreso buttare a mare dapprima il carico di te della Compagnia delle Indie che il Re d’Inghilterra imponeva loro di bere a prezzo maggiorato da tasse che non avevano deciso altri che lui, e poi alla fine lo stesso Re. Gli Americani inventarono la democrazia moderna smettendo di chiamarsi inglesi e semplicemente applicando un vecchio principio amministrativo degli inglesi. Nella storia umana, le conquiste più grandi spesso arrivano quasi per caso, fuori dall’alone di leggenda di cui poi vengono ammantate.
Quasi un secolo dopo, un connazionale di Jefferson a nome Samuel Langhorne Clemens – che gli appassionati di letteratura conoscono con lo pseudonimo Mark Twain – consegnò alla storia un altro aforisma non meno denso di significati, anche se assai meno carico di ottimismo rispetto a quello del predecessore. «Se votare servisse a qualcosa – disse Mark Twain – non ce lo lascerebbero fare di certo». In quel secolo di distanza tra i due grandi americani era successo che il loro paese aveva sperimentato quanta distanza potesse esserci nella realtà tra l’elaborazione di grandi principi e la loro messa in pratica. Cento anni dopo la loro rivoluzione, gli americani erano sempre affezionati al loro sistema (pessimo, ma tuttavia migliore di qualsiasi altro finora sperimentato, come l’avrebbe definito Winston Churchill) ma nel frattempo erano diventati altrettanto consapevoli dei suoi difetti di quanto non lo erano stati i loro cugini-padroni inglesi al tempo delle colonie.
Noi italiani facciamo parte dalla seconda guerra mondiale (dichiarata e poi persa in modo altrettanto scellerato) di quell’occidente che ha fatto propri quei valori usciti vittoriosi dalla rivoluzione di Jefferson. E tuttavia per noi la democrazia non è stata una conquista, ma piuttosto un bene di importazione, come la Coca Cola, l’iPhone, la Harley-Davidson. Ci siamo adattati ad essa così come ad ogni altro prodotto dell’industria americana che in effetti negli ultimi cinquant’anni ci ha offerto uno stile di vita assai più agevole e gradevole dei precedenti, ma non ce ne siamo mai veramente e intimamente convinti.
Settanta e più anni dopo l’entrata in vigore di quella che a suo tempo è stata definita a ragione una delle migliori costituzioni repubblicane della storia, non possiamo dire che democrazia, libertà di pensiero e azione, rispetto per la libertà altrui siano valori condivisi. Si va a votare, soprattutto negli ultimi tempi, oppure si cerca di evitare di farlo in base al principio molto più primordiale che tutto è lecito pur di impedire alla controparte di prevalere. Tutto, anche il gioco più sporco e che più contraddice quei valori che sono scritti a caratteri indelebili nella nostra carta costituzionale, e che un presidente maestro di retorica e di poche altre cose ribadisce ogni giorno come imprescindibili. Salvo poi aver dato l’incarico ad uno dei governi meno rappresentativi della storia d’Italia, uno di quelli contro cui Thomas Jefferson avrebbe invitato sicuramente alla rivolta. Non per una singola legge, ma per tutte quante.
Il governo Conte Bis ha festeggiato nei giorni scorsi l’anno di vita. Chissà se immaginava festeggiamenti così in tono minore quando il premier salì al Quirinale per farsi investire alla testa di una maggioranza che contraddiceva completamente quella precedente, nonché le ultime elezioni politiche nazionali. In una gara tra facce di bronzo, Mattarella ammiccò e Conte incurvo le labbra in quel suo sorrisetto tipico di chi sa di avercela fatta, nonostante l’essere un uomo con ancor meno qualità di quelle del protagonista di Robert Musil.
Da allora, comunque, la parola d’ordine è quella del Gattopardo: nulla deve cambiare, e perciò tutto faccia finta di farlo. Senonché la maggioranza numerica che siede in quelle due Camere delle quali domani ci viene chiesto di ridurre i membri sa bene di non corrispondere assolutamente ad una maggioranza reale nel paese. Uno dei partiti, il Cinque Stelle, è sulla strada dell’Orso Panda (anche se non crediamo che al WWF nessuno si darà pena e si farà carico di evitarne l’estinzione). L’altro, il Democratico, è il figlio bastardo e se possibile degenere del vecchio Comunista, che non ha mai vinto una elezione democratica nella sua storia né ha mai conquistato il potere per vie legali, e così ha istruito di continuare a comportarsi il suo figliastro nelle sue ultime volontà. Peccato che questo discendente non mangi più bambini, ma mangi e basta. E quello che non divora, sciupa.
Il Conte Bis avrebbe fatto carte false (e chissà che non si sia trattato – e non si tratterà in futuro – solo di un modo di dire) per evitare questa tornata elettorale che tra le sette amministrazioni regionali mette in discussione quella chiave, la Toscana, roccaforte rossa dal dopoguerra assieme a quell’Emilia Romagna salvata a gennaio per il rotto della cuffia e l’olezzo delle Sardine.
Se cade Firenze, cade il centro-sinistra. O meglio, cadrebbe se votare servisse a qualcosa (con buona pace di Mark Twain), e se a quel punto anche in Italia uomini e donne degni di questo nome raccogliessero l’esortazione di Jefferson a ribellarsi a leggi ingiuste. Ma il personaggio chiave della nostra vicenda politica e civile non viene dalla Virginia o dal Massachussets. Viene dalla Sicilia, si chiama Sergio Mattarella, e non è uno che rilascia frasi storiche, tuttalpiù frasi lunghe, noiose e prive di fondamento. L’uomo in questione predilige i fatti, o in alternativa i non-fatti, il tutto possibilmente dietro le quinte. Aspettarsi una crisi di governo da un simile individuo è come aspettarsi dal Papa che faccia cardinali le donne.
Sul voto regionale, poi, pesa quello referendario. Qualcuno ha detto nei suoi slogan: non importa quanti mi rappresentano, ma come mi rappresentano. La questione non é pagare qualche lauto stipendio e poi vitalizio in meno, è portare a Montecitorio e Palazzo Madama persone oneste e capaci, che si ricordino di essere state messe lì dal popolo. Da un popolo tra l’altro che un giorno può anche ricordarsi di Jefferson e di se stesso.
Sappiamo benissimo che se vince il SI, Giuseppe Conte è pronto a blindare la sua legislatura con una nuova manfrina indegna sulla legge elettorale da adeguare al nuovo assetto parlamentare. E noi, dicono quelli del PD scopertisi improvvisamente un partito di costituzionalisti, siamo una repubblica parlamentare….
Votate chi vi pare, domani e dopodomani. Ma poi non vi lamentate se sul dollaro americano c’è la foto di Thomas Jefferson e sul nostro euro uno di questi giorni comparirà quella di Sergio Mattarella. A ciascuno il suo, caro Mark Twain che ti lamentavi di un sistema che rispetto al nostro è cent’ori.
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