Diario Viola Fiorentina

Storia della Fiorentina – 11. Gli occhi della tigre

E’ dura riprendersi dopo aver fatto un lunghissimo e bellissimo sogno che negli ultimi minuti prima dell’alba si è trasformato in un incubo orrendo. Quei minuti trascorsi con le radioline in mano, che stavolta non volarono per aria ma diventarono pesantissime dopo il gol su rigore di Brady a Catanzaro, lasciarono il segno, aprendo una ferita che non si è più rimarginata.

Se l’estate precedente era stata quella della fantasia e dell’euforia sfrenata, trascorsa ad immaginare una Fiorentina che veniva pronosticata da tutti in procinto di ripetere – dopo altri fatidici tredici anni – le cavalcate vittoriose del ’56 e del’69, quella del 1982 fu l’estate del lutto, e della impossibilità della sua elaborazione. La Fiorentina si era dimostrata una grande squadra, incapace di andare in fuga solitaria per tanti motivi (molti indipendenti dalla sua volontà o dalla sua capacità) ma capacissima di tenersi incollata alla fortissima Juventus costituita per sette undicesimi da futuri campioni del mondo, in un head to head alla fine del quale avrebbe meritato almeno la possibilità di giocarsi lo spareggio. Uno spareggio che né la Juventus né la Federcalcio volevano.

Il colpo fu durissimo e il dolore troppo grande e impossibile da smaltire, ma non c’era tempo per commiserarsi. O meglio, il Conte Pontello non ne lasciò né a se stesso né a nessun altro, rituffandosi nella lotta con rinnovato vigore. Era andata male, malissimo, come peggio non si poteva, ma lui ci volle riprovare alzando la posta. L’odiata avversaria si era assicurata le prestazioni di fuoriclasse come Zibi Boniek e Michel Platini (innestati sul corpo di una squadra che per sette undicesimi era quella diventata nel frattempo campione del mondo con la maglia azzurra al Santiago Bernabeu), con il sacrificio di quel Liam Brady che aveva segnato con freddezza il discusso rigore dello scudetto della seconda stella a Catanzaro.

Pontello rilanciò con un acquisto che aveva annunciato da mesi, facendo saltare sulla poltrona i tifosi viola. «Passarella e Maradona», aveva buttato lì una sera rispondendo ad una domanda sui prossimi acquisti di mercato, in una delle tante trasmissioni sportive che se lo disputavano, sapendo che non avrebbe mai detto cose banali. Non era stato banale neanche quella volta. Di Maradona non ne avevamo bisogno, avendo già in squadra un numero 10 che non solo i fiorentini ritenevano di classe almeno pari. Sull’altro nome, invece, era lecito scatenare di nuovo fantasie e sogni.

Avevamo già in squadra l’uomo che aveva deciso la finale allo Stadio Monumental di Buenos Aires, la notte del 25 giugno 1978. Nel frattempo, la Federcalcio aveva portato a due il numero degli stranieri che una squadra poteva schierare in campionato, e la Fiorentina pensò bene di rallegrare il puntero dalla faccia triste Bertoni affiancandogli il compagno più prestigioso tra quanti erano scesi in campo quella notte. L’uomo le cui mani avevano sollevato al cielo la prima Coppa del Mondo della storia argentina.

Buenos Aires, Estadio Monumental, 25 luglio 1978

Daniel Alberto Passarella, detto El Caudillo, era l’uomo giusto per rilanciare i sogni viola. Uno dei giocatori di maggior classe e carisma mai prodotti dal calcio argentino e non solo, un giocatore che in campo incuteva timore agli avversari e rispetto ai compagni, al punto che nemmeno l’astro nascente del calcio mondiale Dieguito Maradona osava insidiargli la fascia di capitano della  Seleciòn biancoceleste.

Passarella era diventato titolare della sua Nazionale nel 1974 dopo i Mondiali di Germania e ne sarebbe uscito nel 1986 dopo i Mondiali (ancora vittoriosi) del Messico. Unico giocatore argentino della storia a vincere due Mondiali (anche se quello dell’86 di fatto non lo giocò, ufficialmente essendo stato colpito dalla Maledizione di Montezuma, ma c’è chi dice a causa di contrasti insanabili con l’altro personaggio carismatico di quella squadra, el Pibe de Oro), sarebbe stato inserito da Pelé nella lista dei 100 migliori giocatori di tutti i tempi.

E’ stato uno dei giocatori più straordinari della storia viola. Tecnicamente, era quello che allora si chiamava un libero, cioè il regista della difesa, ed è stato uno dei migliori interpreti di sempre di quel ruolo, insieme ai suoi coetanei il povero Gaetano Scirea, l’olandese Ruud Krol ed il tedesco Franz Beckenbauer. Era un difensore moderno, capace di attaccare e di segnare molti gol, soprattutto su punizione. E’ il secondo difensore nella classifica dei marcatori assoluti di tutti i tempi, al secondo posto dietro Ronald Koeman con 178 reti, di cui 22 con la maglia biancoceleste e 26 con quella viola.

Del Mondiale 1978 molti ricordano la sua foto con il Generale Videla, il feroce dittatore argentino che utilizzò la vittoria come cassa di risonanza per il regime che aveva insanguinato il suo paese, con una repressione senza precedenti e la tragedia dei desaparecidos. Ma Daniel era soltanto il capitano, il conducador di una squadra forte e determinata, che aveva il vantaggio di giocare in casa e che fu piegata soltanto una volta, nelle eliminatorie, dalla fortissima Italia di Enzo Bearzot. Fargli colpa di quella foto equivale a contestare a Peppino Meazza la presenza alla premiazione del 1934 accanto a Benito Mussolini, semplicemente assurdo.

I fiorentini non si fecero di questi problemi, ed accettarono il sacrificio del pur ottimo Roberto Galbiati per fargli spazio. Semmai soffrirono insieme a lui mentre pagava lo scotto inevitabile dell’ambientamento nel calcio italiano.  Lo rispettarono subito, per arrivare ad amarlo ci misero qualche mese, mentre insieme a lui stentava tutta la squadra che, lungi dal rinnovare da subito il testa a testa con i bianconeri per regalare a Firenze l’attesa vendetta, impiegò diverso tempo a smaltire le tossine lasciate dal campionato precedente e dal mondiale, per chi l’aveva giocato.

A Firenze la Juve vinse una partita strana, con un gol casuale di Tardelli a cui i nostri non seppero replicare, pur mettendoci tutti se stessi ed una rabbia che veniva dal maggio precedente. Anche la Juve però quell’anno sembrava stentare a decollare, e allora ne approfittò la Roma di Falcao e Conti per vincere il primo scudetto vero della sua storia, dopo quello di regime del 1942 e quello mancato due anni prima a causa del furto perpetrato ai danni di Ramon Turone, che aveva segnato a Torino nello scontro diretto un gol (annullato) che grida vendetta ancora oggi, al pari di quello di Ciccio Graziani a Cagliari.

Alla fine di quel campionato, i tifosi viola si consolarono con la finale di Coppa Campioni persa in quel di Atene dalla Juventus, e assistettero con invidia ai festeggiamenti dei romani al Circo Massimo, con Pietro Wierchovod che si appuntava sulla maglia giallorossa il tricolore sfuggitogli l’anno prima con la maglia viola.

Il calciomercato non mancò anche quell’estate di regalare colpi e speranze ai fiorentini. Proprio nel momento in cui nasceva e si consolidava l’odio di Firenze per la Vecchia Signora, si inaugurò la stagione dei gobbi da degobbizzare, giocatori dismessi dalla Juve che venivano a chiudere degnamente a Firenze una gloriosa carriera. Era stato il caso di Cuccureddu e fu quello di Claudio Gentile, forse troppo presto accantonato a Torino, che venne a rafforzare la difesa viola che aveva perso appunto Wierchovod, rientrato dal prestito a Genova e dirottato ancora a Roma. Insieme a loro, dall’Inter era arrivato un altro campione del mondo, Lele Oriali. L’addio di Ciccio Graziani era stato compensato dall’apparente esplosione di Paolo Monelli e dall’acquisto del genoano Pasquale Iachini, un’ottima ala.

C’erano le premesse per un’altra grande stagione. Un’altra rincorsa alla vendetta.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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