Diario Viola Fiorentina

Storia della Fiorentina – 13. Il Tacco di Dio

Il secondo infortunio di Antognoni ed il secondo campionato iniziato tra i proclami di vittoria e finito ad assistere alla vittoria degli altri, quelle maglie bianconere la cui vista ormai a Firenze era diventata insopportabile, erano mazzate che avrebbero steso un toro da corrida.

Ma non il Conte Pontello. Non ancora. Con il Capitano che era atteso da una lunga stagione di convalescenza e di riabilitazione, gli imprenditori edili che non sognavano altro che di costruire una Fiorentina vincente rilanciarono in faccia alla malasorte, andando a pescare dal Corinthians in Brasile nientemeno che il mitico Brasileiro Oliveira Sampaio de Souza detto Socrates. Il Dottore. Il Tacco di Dio. L’uomo che aveva messo a sedere Dino Zoff nell’epico scontro del Sarria di Barcellona al Mundial 1982, nella sfida poi vinta dagli azzurri per 3-2 grazie al risorto Paolo Rossi.

Fu un’altra estate di grande entusiasmo quella del 1984. Ricordo che andavo a casa della mia amica Silvia Berti (che allora neanche sognava che da grande sarebbe diventata dirigente della sua squadra del cuore) a studiare per gli esami di Scienze Politiche, e un giorno mi accolse senza nemmeno dirmi buongiorno, dicendomi «Abbiamo preso Socrates». «Si, va bene, vien via, prendi il libro e smettiamola con le bischerate, per favore» le risposi. Per tutta risposta lei mi mostrò la prima pagina del Corriere dello Sport – Stadio, dove campeggiava il titolo cubitale SOCRATES! scritto in viola e la foto del Dottore!

Italo Allodi

Fu così che i maggiori quotidiani sportivi annunciarono nel giugno 1984 il colpo più clamoroso del calciomercato messo a segno da Tito Corsi e dal suo supervisor, quell’Italo Allodi che dieci anni prima aveva allestito proprio la fortissima Juventus contro cui i Pontello si erano scornati gli anni precedenti, e che adesso si era assicurato per conto della Fiorentina le prestazioni di quello che era considerato uno dei più grandi giocatori dell’epoca, capitano e leader carismatico di un Brasile che di fuoriclasse era pieno zeppo e che soltanto lo stato di grazia dell’Italia di Enzo Bearzot e del ritrovato Pablito aveva tenuto lontano dalla Coppa del Mondo.

Socrates con Ranieri Pontello

Se le stelle avevano voltato la schiena al ragazzo che giocava guardandole, la Fiorentina per sostituirlo degnamente si era rivolta direttamente a Dio, chiedendogli il suo Tacco. Era uno dei tanti soprannomi di Socrates. I fiorentini, che in quel momento ancora ci credevano quanto e più degli stessi Pontello, presero una volta di più d’assalto i botteghini fino al limite delle possibilità del vecchio stadio di Nervi, che allora si chiamava ancora Comunale e le cui strutture quell’anno furono messe veramente a dura prova, almeno finché il sogno non si rivoltò contro se stesso, trasformandosi in un incubo.

Socrates non era un personaggio qualsiasi, neppure dal punto di vista umano. Era nato a Belém nello stato carioca del Parà il 19 febbraio 1954. Il padre, un profugo cristiano palestinese che aveva letto la Repubblica di Platone, gli mise il nome del più grande filosofo dell’Antichità, sognando per quel figlio un futuro da intellettuale. Socrates non lo deluse, laureandosi in medicina e conseguendo l’abilitazione all’esercizio della professione. Senonché nel frattempo si era reso conto di avere un futuro ancora più luminoso come calciatore, nel paese considerato il paradiso del calcio, e così lo stetoscopio dovette aspettare.

Colui che Sua maestà Pelé avrebbe definito come il giocatore più intelligente della storia del calcio brasiliano dimostrò ben presto il proprio spessore non solo di calciatore ma anche di uomo diventando il punto di riferimento della sua squadra, il Corinthians di San Paolo, non solo per il gioco sul campo ma anche per la vita stessa della società. Nel club paulista il Dottore, come veniva già soprannominato da compagni e tifosi, si rese promotore del primo esperimento di autogestione della storia del calcio brasiliano. In un paese in cui ancora vigeva una durissima dittatura militare, Socrates incitò i compagni a ribellarsi all’allenatore e a gestire tutto quanto, scelte tecniche ed organizzative, in proprio, con vere e proprie assemblee e votazioni a maggioranza.

Fu la cosiddetta democrazia corinthiana, e funzionò talmente bene che nel 1982 il club autogestito vinse addirittura il titolo paulista. A quel punto, il ribelle che predicava la democrazia, l’anticapitalismo e il rifiuto delle regole consolidate del mondo del calcio (dai ritiri agli allenamenti intensivi all’obbligo di condurre vita da atleta per quanto riguarda orari, vita sociale, sessuale ed abitudini alimentari) era diventato un personaggio di fama mondiale, nonché il leader carismatico di quel Brasile che si presentò in Spagna sentendosi il Mondiale già in tasca. Di quella squadra il personaggio più affascinante non era Zico, né Falcao, ma proprio lui, il Tacco di Dio. Giocatore che impressionava per la grande tecnica individuale, di testa e di piede, e per il senso della posizione in campo che lo vedeva spesso arrivare in porta partendo da dietro, era inevitabile che il suo nome fosse in cima alle agende di tutti i direttori sportivi delle squadre nostrane. Il calcio italiano che era appena diventato campione del mondo era in quel momento il più ricco di disponibilità economiche ed il più appetito tecnicamente da tutti i grandi giocatori del pianeta.

Per tenersi all’altezza della concorrenza, Pontello aveva già portato a Firenze il capitano della nazionale argentina, Daniel Alberto Passarella. Lo scudetto non era arrivato, e allora nel 1984 serviva rilanciare. Inizialmente Allodi aveva pensato a Karl Heinz Rummenigge, il fuoriclasse capitano della Nazionale della Germania Ovest sconfitta dagli azzurri nella finale mondiale del Bernabeu. Ma Kalle giocò un brutto scherzo alla Fiorentina, preferendole l’Inter quando sembrava tutto ormai fatto. Per ripiego, i viola andarono sul Dottore e a Firenze fu apoteosi. Per fare l’abbonamento allo stadio dove Socrates avrebbe sciorinato i suoi leggendari colpi di tacco molti, come si suol dire, fecero nottata.

Entrare al Comunale quell’anno fu un’impresa. Ad assistere alla partita di Coppa Uefa con l’Anderlecht, finita 1-1, si è calcolato che fossero presenti oltre 60.000 persone, probabilmente il record fiorentino di presenze di tutti i tempi. Segnò Socrates, pareggiò Vandenbergh, al ritorno in Belgio, finì in una débacle viola. Sconfitta per 6-2 e primo affiorare dei problemi che avrebbero fatto naufragare quella promettente annata.

In realtà, la squadra in cui giocavano i capitani di Argentina e Brasile era un gigante di carta. Lungi dal non far rimpiangere Antognoni, Socrates ebbe un impatto traumatico con il calcio italiano. Al ritiro a Pinzolo andò subito in crisi a causa dei metodi di allenamento che per il nostro calcio erano usuali ma che lui aborriva. Alla prima corsa in salita addirittura svenne.

In campo, l’uomo che aveva incantato il mondo con la maglia verdeoro, con quella viola andava a trazione ridotta. Gli altri correvano e lui rimaneva indietro, tanto che qualcuno rielaborò il suo soprannome più celebre in quello di Dottor Traccheggia. Del resto, era più facile vederlo di sera in qualche circolo ricreativo culturale a parlare di politica e a bere birra e fumare come un turco insieme agli amici piuttosto che di pomeriggio con i compagni ad allenarsi ai Campini. Lo spogliatoio nel frattempo si era spaccato in due, per effetto del dualismo creatosi tra lui e Passarella, che non potevano essere più diversi umanamente e che infatti non si presero fin dal primo minuto. Il risultato fu un imprevedibile disastro.

Ancora una volta, dopo l’estate dell’illusione arrivò la stagione della delusione. Senza il nostro unico 10, senza Daniel Bertoni nel frattempo ceduto al Napoli dove aveva ritrovato Maradona, e con altri vecchi campioni (non solo Socrates) che cominciavano a mostrare i segni dell’usura del tempo, mentre i giovani scalpitavano per andare altrove (Daniele Massaro) o semplicemente non mantenevano le promesse (Paolo Monelli), la Fiorentina quell’anno giocò un campionato scialbo, senza mordente né scopo. Uno di quelli che i tifosi non vedono l’ora che finisca per potersene subito dimenticare.

Ad intristire ulteriormente l’ambiente, arrivò l’improvvisa malattia di Picchio De Sisti, che lo mise fuori gioco all’undicesima giornata, subito dopo quella che sarebbe rimasta la partita più incolore (1-1 a Cremona in casa dell’ultima in classifica) e prima dello scontro attesissimo con una Juventus che per quanto prossima a fine ciclo era sempre l’avversaria da battere (finì 0-0 a Torino). Il male che mise fuori gioco Giancarlo De Sisti sembrò un segno del destino come l’infortunio che aveva messo fuori gioco Giancarlo Antognoni. Anche Picchio era destinato a rientrare  solo nominalmente. La sua carriera di allenatore in viola era finita lì.

La squadra fu affidata a un’altra vecchia gloria viola, Ferruccio Valcareggi, portacolori di una Fiorentina anni 40 che aveva cominciato a farsi valere nel panorama nazionale. Uccio la portò in fondo al campionato senza infamia e senza lode. Ormai l’annata era troppo compromessa, soprattutto psicologicamente.

Unica perla di quell’anno, e che perla, la vittoria a Torino contro l’odiata Juventus, che si apprestava a giocare di lì a poco la finale maledetta della Coppa dei Campioni all’Heysel. A Torino segnò il gol della vittoria Daniel Passarella, l’unico hombre rimasto a reggere la baracca. Non avevamo più vinto lassù dall’anno dello scudetto.

Quell’annata deludente che valse a Socrates l’ennesimo soprannome della sua collezione, il Che Guevara del Calcio, si concluse con 25 presenze, 6 reti (una in meno del capocannoniere Monelli) e pochi veri momenti di splendore all’altezza della sua fama. Per la Fiorentina valse inoltre uno scivolamento nella mediocrità che sarebbe andato ben oltre quel campionato. Il flop del Dottore – con il senno di poi – coincise con il definitivo abbandono delle ambizioni di gloria e di vittoria dei Pontello, i quali profondamente delusi dai risultati e dalle prime clamorose contestazioni dei tifosi ripiegarono su una gestione più modesta negli ultimi anni della loro proprietà.

Alla fine di quella stagione infausta, tra la Fiorentina e Socrates la separazione fu consensuale. Troppe sigarette nei suoi polmoni, troppa saudade, troppi interessi extracalcistici, avevano reso la parentesi fiorentina di Socrates breve e di pochissima soddisfazione. Il campionato in cui Socrates ebbe in mano il centrocampo viola, purtroppo, è ricordato come uno dei più scialbi giocati dalla Fiorentina. A o calcanhar que a bola pediu a Deus (Il colpo di tacco che la palla chiese a Dio) non restò che fare ritorno in patria, nel suo mondo dove il calcio andava del suo passo e si adattava ai suoi schemi mentali e dove il suo carisma era rimasto intatto. Lo riprese il Flamengo, con grande sacrificio economico.

L’anno dopo, era il 1986, era di nuovo a difendere i colori verdeoro ai mondiali messicani, dove la Selecao fu fermata di nuovo ai quarti, stavolta dalla Francia di Michel Platini. Socrates, per quanto finisse per sbagliare uno dei rigori che costarono l’eliminazione alla sua squadra, tornò a fornire una prestazione all’altezza del suo nome, aumentando il rimpianto nella città che aveva sognato di diventare finalmente grande con lui e dove invece la sua stella aveva brillato per pochi fuggevoli istanti.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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