Giuseppe Conte inizia il suo discorso al Senato alle ore 15,00 del 20 agosto 2019, come calendarizzato. Il suo ultimo da Presidente del Consiglio, ed anche quello che – purtroppo per lui – consegnerà alla storia la sua dimensione umana e politica, oltre che il consuntivo della sua azione di governo. Tutto alla fine si riduce a poco, veramente poco, una delusione cocente, e dispiace dirlo a chi lo aveva salutato ed apprezzato come una delle novità positive e qualificanti di questa parentesi gialloverde nella storia di una Repubblica che ha cercato di diventare Terza e si è ritrovata alla fine più Prima che mai.
Il discorso del – a questo punto – ex Presidente è in pratica un attacco personale a Matteo Salvini. Condotto non con i toni e gli argomenti di un politico che giustifica e documenta davanti alla Camera Alta le ragioni di un dissidio politico, ma piuttosto con gli atteggiamenti e gli argomenti di una comare di ballatoio, di cortile. Sorprendentemente acido, astioso, decisamente pettegolo e sussiegoso e infido come l’ultimo dei vostri colleghi a cui dareste confidenza, o voltereste le spalle.
Giuseppe Conte si ridimensiona da solo, fornendo al contempo le ragioni per cui dire basta con la sua presenza a Palazzo Chigi, come se già non ce ne fossero state abbastanza. Matteo Salvini ha buon gioco a rispondergli, senza nemmeno avere la necessità di farlo. Il suo gesto sommesso ma deciso con cui invita i compagni di partito a non fischiare, non contestare, non enfatizzare gli insulti che gli arrivano dal Presidente del Consiglio vale da solo l’intera seduta del Parlamento, e stabilisce una differenza di stile, di carisma, di spessore politico ed umano che il professore prestato alla politica e al marasma grillino non potrebbe colmare neanche in un paio di reincarnazioni.
Quando tocca a lui replicare, Matteo Salvini ha buon gioco a non entrare nel merito di insulti, ripicche e sciocchezze varie, ma si limita a spiegare le ragioni per cui dicono che lui abbia staccato la spina al governo gialloverde e porta alla luce magistralmente le artefatte e – a quanto emerge – lungamente preparate motivazioni con cui in realtà appare chiaro che quella spina l’hanno staccata altri.
La replica di Conte a tarda serata dimostra che il ceffone gli è arrivato in pieno viso. E’ un discorso in tono mediocre e modesto, più che minore, una excusatio non petita, o forse più petita che mai, con cui il Grande Accusatore si ritrova a giustificarsi di tutto ciò che Matteo Salvini gli ha rispedito come mittente. E anche di ciò che sta succedendo altrove.
Sarà un caso – con la nostra magistratura è sempre problematico stabilirlo – ma a mille chilometri di distanza da Palazzo Madama, in quel di Lampedusa, sono le ore in cui Patronaggio passa alle vie di fatto e con l’apparenza dell’atto dovuto sequestra la Open Arms. Di fatto consentendo ai migranti – quelli che non avevano ancora seguito il consiglio di altri patronati di buttarsi in acqua e raggiungere le coste italiane a nuoto – di sbarcare sul nostro suolo indisturbati.
A quel punto, Conte ha già fatto marameo, e ha salutato la compagnia dicendo fate un po’ come ve pare, io vado da Mattarella. Il quale evidentemente lo sta aspettando, e non lo trattiene più di dieci minuti. Le dimissioni più veloci di sempre. Evidentemente, non si è trattato di una improvvisata, né per il Presidente del Consiglio né per quello della Repubblica.
Di tutti i discorsi che si sono succeduti nell’emiciclo del Senato, a quel punto quelli che contano sono andati in scena da ore. Conte ha chiarito di non aver mai pensato di ricucire lo strappo, pur accusando di ciò Salvini in spregio al contratto di governo. Salvini gli ha fatto gli auguri per il cambio di casacca clamoroso che lo dovrebbe portare al governo giallorosso per cui il professore pugliese si è smaccatamente candidato. Renzi ha fatto il Renzi, recitando un canovaccio da commedia dell’arte che in quel momento fa comodo – o scomodo – a diversi.
Poi c’é Di Maio. Sofferente visibilmente, è stato l’ultimo ad arrendersi allo stacco della spina. Si vede che sta subendo tutto ciò che succede, consapevole che oltre alla sua esperienza di governo ed al suo Movimento probabilmente è finita stasera anche la sua carriera politica. Ma del resto, con in mano i risultati del sondaggio privato di Casaleggio che trapela e accredita i 5 Stelle di un 8% di consenso, Grillo ha avuto il suo consueto e picaresco buon gioco a bacchettarlo sulle dita: ma dove vuoi andare? lascia fare a me!
Palla a Mattarella, e a due segretari delegittimati. La logica della casta vuole un governo PD – 5 Stelle, un Conte che si offre spudoratamente e abbastanza miseramente alla sua guida, un Salvini che – dopo aver genialmente ritirato la mozione di sfiducia e costretto il Presidente del Consiglio ad andare al Quirinale sembrando un facinososo in preda a stato di confusione mentale – a questo punto applica l’Arte della Guerra di Sun Tzu accettando (forse) di perdere la prima battaglia per vincere alla fine la guerra. Ma adesso il PD se la deve vedere con il fantasma Renzi redivivo, e con il destino di uno Zingaretti retrocesso improvvisamente da Montalbano a Catarella. Ci starà a fare il portaborse di Renzi, di pirsona pirsonalmente?
Si lavora per un governo di legislatura, tra gente che ha paura di andare al voto popolare, aspetta il maturare della pensione di parlamentare e la prossima intemperanza del pubblicizzatore di yoghurt o del bomba di Rignano. Perché tanto, le intemperanze di questi due arriveranno. L’Uomo del Colle può anche tirarsi fuori dal cilindro una maggioranza giallorossa, ma durerà quanto un gatto abbandonato sull’Aurelia a Marina di Bibbona. E non sarà certo Beppe Grillo ad andare a salvarlo.
Il Movimento 5 Stelle da ieri sera è finito. L’Italia potrebbe metterci qualche tempo in più. I conti come Salvini (40% circa) li abbiamo fatti in tanti, speriamo che il Cuore Immacolato di Maria ci protegga davvero.
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