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Don’t cry for me, Argentina

Per capire la vicenda umana e calcistica di Maradona bisogna capire l’Argentina. Se capisci l’Argentina, capisci perché per la seconda volta in tanti anni, qualcuno le chiede: Dont’ cry for me….. E tanto gli argentini piangono lo stesso, fregandosene di tutto e di tutti, della retorica e del malcelato disprezzo altrui. Sentendosene anzi orgogliosi.

Come Evita, Diego Armando diventò un eroe del popolo facendo altro. Una cantava nei barrios, l’altro giocava alla pelota, sempre nei barrios. Diventare degli idoli per un popolo che di idoli ne cerca da sempre (il populismo l’hanno inventato loro, gli argentini) fu una cosa grande e nello stesso tempo semplice.

Negli anni in cui l’emigrazione dall’Europa si sostituiva al colonialismo, quella enorme distesa di terra che va dal Rio de la Plata alla Tierra do Fuego era la meta privilegiata di tanti descamisados provenienti da paesi ancora più poveri di quanto un giorno lo sarebbe diventato quello che aveva dato ricetto a tutti, senza pensarci troppo. Soltanto di italiani ce n’é finita una quantità, laggiù, il secondo nostro paese di immigrazione dopo gli Stati Uniti d’America, el Norte.

Come nella terra dei gringos, molti facevano fortuna, molti di più invece no. E andavano ad ingrossare le fila degli abitanti dei barrios, delle favelas, degli slums, delle periferie miserabili. Amando lo stesso disperatamente quel loro paese d’adozione che aveva dato loro poche certezze in cambio di tutti i loro sogni.

Diceva Jorge Luis Borges, un connazionale di Diego Maradona quasi altrettanto famoso, che l’argentino è un italiano che parla spagnolo. E che vorrebbe sentirsi inglese. Sono diversi da tutti gli altri sudamericani, gli argentini. E non per nulla stanno sulle scatole a tutti gli altri sudamericani, a cominciare dai dirimpettai uruguayani e brasiliani. Sono quelli del Che, l’intercalare che costella qualsiasi loro conversazione, tanto da fornire il famoso soprannome al medico argentino Ernesto Guevara de la Serna, che smise di fare il medico e andò a fare la rivoluzione.

Gli argentini si sentivano e si sentono signori, e purtroppo hanno smesso di esserlo nella realtà da molto tempo. Ma ci credono ancora. Di dovunque venissero il nonno e la nonna sbarcati a Baires o a Mar del Plata tanti anni fa, loro adesso sono portenos, gauchos, e del paese natale ricordano poco o nulla, se non per motivi anagrafici. La loro maglia è biancoceleste. Il loro eroe è un ragazzo dal cognome spagnolo e dai tratti indios. Ne hanno avuti altri prima e dopo, ma nessuno sarà mai come lui. Perché nessuno si è sentito come lui, e ha fatto sentire gli altri, il suo pueblo, come lui.

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Maradona è stato paragonato a Che Guevara. Chissà che non lo fosse davvero. Quando si caricava sulle spalle la nazionale albiceleste contro tutto e contro tutti, quando diceva di scendere in campo per vendicarsi delle Falklans Malvinas (1986) e per vendicare Napoli di secoli di sfruttamento da parte dei nordisti (1990), lui ci credeva davvero. Quando piangeva per il suo inno fischiato dai romani (Italia 90, la finale), le sue erano lacrime vere.

Aveva sogni di bambino anche da grande, el pibe de oro. Il ragazzo d’oro. Non ha mai preteso di essere un modello. E non lo è stato, difatti. Ma un simbolo sì. Quanti ragazzi come lui ha tirato fuori da quei barrios mostrando loro la strada per uscire dalla miseria ed andare ad incontrare una bestia forse peggiore: il successo.

Quanto sembra incolore quel ragazzo argentino che tocca la palla non molto peggio di lui, Lionel Messi, al suo confronto. Dieguito trasformava in oro tutto quello che toccava, fosse la Coppa del Mondo o l’ignominioso gol di mano alla nemica Inghilterra, ribattezzato in modo blasfemo la mano de Diòs. Ma a lui lo si perdonava, perché in certi momenti sembrava che facesse davvero il lavoro di Dio, portando gioia alla gente. A confronto, Leo sembra un giocatore da playstation, bravissimo ma freddissimo. C’é da credere che dopo la sua uscita di scena nessuno si ricorderà più di Messi. Di Maradona si parlerà ancora tra un secolo, e non solo lungo le pampas o nei quartieri portenos.

DiegoMaradona201130-003E’ stato un eroe per un popolo che cercava riscatto, magari nei posti sbagliati, oppure semplicemente nei posti che aveva a disposizione. Juan Peron era stato un dittatore, ma comunque diverso da Benito Mussolini, da Adolf Hitler o da Francisco Franco. In fin dei conti, era stato quasi un personaggio uscito da un racconto del massimo narratore di racconti argentino, Osvaldo Soriano. Il cantore del futebol, così come di molti altri regni delle favole latinoamericane, prima che arrivasse Isabel Allende a reclamare un diritto femminino ed uno scettro che in realtà era appartenuto più a Evita che a Juan.

Se non capisci l’Argentina, del Sudamerica non capisci niente. E nemmeno del calcio. Maradona ha fatto dimenticare Sivori, ha fatto trascorrere a Messi una luminosa carriera in penombra, ha ridotto al secondo posto Batistuta, il Re Leone. E non perché giocasse meglio di loro – voglio dire, sì, giocava anche un tantino meglio di loro, ma non è questo il punto. E’ perché dietro ogni sua giocata c’era qualcos’altro, di più. Dietro ogni sua intervista c’era qualcos’altro, al di là delle sue parole che spesso sembravano strafottenti. Dietro i suoi atteggiamenti c’era il bambino che ogni altro bambino sognava di essere, o di diventare.

La più commovente immagine del web

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Gli hanno messo contro Pelé, che al suo cospetto sembrava un lord inglese. Maradona era agli antipodi. Ma il calcio è stato il calcio grazie a tutti e due. Sono i due lati delle nostre anime. E le nostre anime hanno avuto pace quando loro due hanno fatto pace.

Maradona per il calcio è stato ciò che Michael Jordan è stato per il basket. C’é un prima, in cui si trattava di sport che bussavano alla porta della televisione per avere un po’ di ospitalità, sentendosi dire magari come Maria e Giuseppe nella notte di Natale: no hay posada. Non c’é posto.

E c’é un dopo. Dopo di loro, è stata la televisione a chiedere in ginocchio un po’ del loro spettacolo divino, per non finire relegata nel magazzino del modernariato, del vintage, dell’inutile che non suscita più niente. Men che meno una audience.

Maradona è stato Maradona. Chi lo tira dal lato della giacchetta della retorica dimostra di non averne capto niente come chi lo tira dall’altro lato: quello del disprezzo per l’Argentina, per Napoli, per un calcio che di angeli con la faccia sporca (*) ne ha proposti tanti. Lui ha avuto il coraggio di essere stato…. il più grande? Chissà. Di sicuro il più spettacolare dentro e fuori dal campo. Il più sfrontato. Quello che non aveva paura di nulla. Nemmeno del Dio a cui finalmente pochi giorni fa ha dovuto restituire la mano.

Evita e Diego. Non piangere per loro, Argentina. Non vorrebbero. Ti hanno insegnato l’orgoglio di quello che sei, nel bene e nel male. Ricordatene sempre.

(*) fu il soprannome dato, prendendo a prestito il titolo di un film del 1938 di Michael Curtiz, a tre giocatori argentini arrivati in Italia negli anni 50: Humberto Maschio ingaggiato dal Bologna, Enrique Omar Sivori, ingaggiato dalla Juventus, e Antonio Valentin Angelillo ingaggiato dall’Inter. Una storia per un altro giorno….

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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