Politica

E adesso, signor presidente?

ROMA – Alle 18,30 finalmente Matteo Renzi si consegna in pasto ai cronisti, che attendono da ore ormai la conferma dei rumors a proposito delle sue dimissioni a seguito della Caporetto elettorale.

Il suo discorso è la conferma sui generis di quei rumors, e insieme del carattere dell’uomo, autoreferenziato e in qualche modo dissociato dalla realtà. Secondo la migliore tradizione del suo partito non è il vertice che sbaglia, è il popolo. Gli elettori non hanno capito il merito tecnico delle proposte del PD, ecco spiegato l’arcano di un risultato che non è quello che lui aveva millantato per mesi, e che non vi si avvicina nemmeno un po’.

Quando poi parla di onestà intellettuale a proposito del referendum costituzionale che se accolto favorevolmente avrebbe permesso oggi di avere un governo uscito già confezionato dalle urne elettorali, conferma il vecchio adagio in vigore tra le forze dell’ordine: per prendere un disonesto la cosa migliore è sempre impiegarne un altro. L’onestà intellettuale del segretario uscente del partito democratico – o di quello che ne rimane – si misura esattamente dalla sua candidatura a quel Senato che voleva abolire, nel collegio blindato di Firenze-Scandiccci-Signa, la Cintura Rossa, Ma la sua versione è imperterrita come la sua espressione, la sua improntitudine è quella che tutta l’Italia ormai conosce, e conoscendola ha deciso di evitarla. Era un altro giorno 4, quello del dicembre 2016, quando fu il popolo a sbagliare andando in massa contromano rispetto alla sua riforma. Come il matto sull’autostrada della barzelletta, adesso lui sta lì non a porgere le sue scuse ma quasi a pretenderne.

Della sana abitudine nordamericana e nordeuropea di presentare in caso di simili sconfitte le proprie immediate e irrevocabili dimissioni, limitando il proprio commento alle congratulazioni al vincitore ed al rammarico nei confronti del proprio elettorato per non essere stato all’altezza delle sue aspettative, concludendo con un dignitoso ed essenziale grazie a tutti, di tutto ciò non c’é traccia nel suo discorso. Lui è l’unico onesto, sono gli altri, milioni di altri, ad essere andati nella direzione sbagliata, votando di pancia, cedendo agli estremismi.

Dovremmo avere imparato a non sorprenderci dei voli morali pindarici di quest’uomo, che dopo il referendum aveva confermato la sua permanenza su una sella da cui aveva promesso di scendere durante la campagna che aveva portato alla sua clamorosa sconfitta, qualora si fosse verificata. Ma tuttavia, quando presenta le sue doverose dimissioni e un attimo dopo le ritira – autosospendendosi da dimissionario – fino alla risoluzione della crisi di governo (e questo aveva la pretesa di riformare la Costituzione? ma che crisi, c’é stata una elezione, Renzi, te ne sei accorto?!?), la sorpresa è d’obbligo.

Chi conosce Renzi per averci giocato da ragazzo insieme, non si dovrebbe meravigliarsi invece del suo beffardo inciso finale: «Sapete che c’é? Noi non ci siamo, noi stiamo all’opposizione!». Matteo Renzi è rimasto quello che quando perdeva sbottava: «Il pallone è mio, me lo porto via e non si gioca più!»

Mentre nel PD comincia la notte dei lunghi coltelli, ed i pretoriani di Renzi fanno subito capire che saranno i primi a saltargli alla gola, nel resto dello schieramento politico bisogna decidere se gongolare o rammaricarsi. Il centrosinistra che non si libererà tanto facilmente di questo imperatore che ha perso il senno come Nerone si mette fuori dai giochi che cominciano oggi per formare una maggioranza di governo che il Rosatellum ha reso intenzionalmente quasi una mission impossible. Il pallone di Renzi, numericamente parlando, sarebbe necessario per governare a ciascuno dei due candidati in pectore, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ciascuno dei quali però per portarselo a casa dovrebbe contravvenire clamorosamente alle promesse ed ai reciproci scambi di cortesie fatti in campagna elettorale. Il ritiro sull’Aventino di un Renzi sanguinante (che a sua volta avrebbe difficoltà, lui o chi al posto di lui, a rifondare un partito in sintonia con il popolo di sinistra alleandosi con una Lega o un Movimento 5 Stelle con cui ci si è vicendevolmente e allegramente infamati fino a poche ore fa) paradossalmente semplifica il gioco a tutti.

A cominciare da quel Sergio Mattarella in indirizzo al quale non ci stancheremo mai di ripetere: mal voluto non è mai troppo. Chi di Mattarellum ferì il popolo italiano per primo 25 anni fa, adesso si goda il Rosatellum. Contro il quale peraltro non ha speso una parola che una, firmandolo e promulgandolo senza battere ciglio.

Luigi Di Maio proclama la nascita della Terza Repubblica. Ma il fatto è che la nostra Costituzione, almeno per quanto riguarda il Titolo che regola il funzionamento degli organi costituzionali, è ferma alla Prima. Il popolo può votare quello che vuole, ma è ancora il sovrano d’Italia (adesso si chiama presidente) che a propria discrezione compie le sue valutazioni e conferisce gli incarichi di governo. Napolitano da quella poltrona al Quirinale fece cose che gridano vendetta. Adesso tocca a Mattarella.

Buon divertimento signor presidente. Peccato per quegli inciuci di una volta in cui lei era maestro. Non ci sono più quelle belle manovre di Transatlantico della Prima Repubblica.

O forse sì?

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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