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La dura vita dell’allenatore a Firenze

La monarchia costituzionale fu inventata nel diciottesimo secolo principalmente per un motivo: per sollevare i monarchi dalla responsabilità delle loro azioni, soprattutto da quel certo momento in poi in cui prese piede l’usanza di far valere quella responsabilità sul palco della ghigliottina. In sostanza, il ministro o maggiordomo pagavano (e pagano tutt’ora, è cambiato solo il metodo) al posto del loro sovrano, mettendoci la faccia e in qualche caso la testa.

La filosofia politica ha fatto tanta strada da allora, estendendo il proprio campo d’azione tra l’altro a tutti quei settori che prevedono l’esistenza di un padrone, di un’azienda, di un fatturato e di azionisti – o quantomeno clienti – a cui rispondere. Prendiamo ad esempio  il mondo del calcio. Non c’è più un Luigi XVI a cui salvare la testa, ma tanti presidenti-proprietari, padroni assoluti come tanti Re Sole fino al giorno in cui la squadra va male, e allora alla folla inferocita una testa in pasto bisogna dargliela, appunto. Di un direttore sportivo, o più facilmente di un allenatore.

E’ la prima cosa che imparano i presidenti del calcio. L’allenatore sta lì a prendersi gli osanna e le maledizioni dei tifosi. Il Presidente, quello non si tocca mai, non si contesta. Perché….. se va via…..

A Firenze, dal 2002 al 2019 c’è stata una società – azienda. Si sarebbe detto che aziendalisti come i Della Valle, così precisi e rigorosi nelle altre aziende del loro gruppo, avrebbero rifuggito inorriditi da certi malcostumi tipici del calcio. E invece…..

Dal giugno 2019 è cambiata azienda, ma il metodo sembra rimasto lo stesso. Rocco Commisso sta concludendo il suo primo anno al timone viola, ma ha già all’attivo (o per meglio dire al passivo) due allenatori.

Mestiere duro quello del mister, a Firenze come altrove. Ma da queste parti in particolare durano poco, alla piazza tendono a venire sulle scatole abbastanza presto. Storicamente, il record di permanenza – sei stagioni – a tutt’oggi rimane legato alla memoria di una figura leggendaria: Fulvio Bernardini, il mister del primo scudetto targato Befani. Proprio con i Della Valle siamo andati vicini a superarlo, con Cesare Prandelli, che di stagioni da queste parti ne ha rette ben cinque. Sappiamo tutti com’è andata a finire, «si cerchi un’altra squadra», proprio la sera della vittoria a Liverpool. Qualcosa non funzionava nel rapporto degli imprenditori marchigiani con i loro dipendenti in tuta da calcio. Ce ne accorgemmo allora, quando l’illusione di una proprietà che credevamo diversa sbiadì nello spazio di una nottata e svanì del tutto in un girone di ritorno di pochi anni dopo.

CesarePrandelli200724-001

Nel 2002, doveva essere Eugenio Fascetti a guidare la Fiorentina retrocessa in B di Vittorio Cecchi Gori. Ma la B diventò C2, la Cecchi Gori Productions diventò una società sottoposta a curatore fallimentare, ed al suo posto la Giunta Domenici tirò fuori dal cappello messole in mano dalla politica romana il Gruppo Tod’s. Che all’inizio ebbe il merito di inventarsi in soli 20 giorni società e squadra. Giovanni Galli ingaggiò l’ex compagno di quasi-scudetto Pietro Vierchowod, per dare la scalata alla C1.

Pietro durò nove giornate. Allenatori non ci si improvvisa, ed il russo scoprì a sue e nostre spese di non avere l’esperienza ed il carisma per portare Riganò & C. ad una marcia trionfale. Al suo posto fu chiamato il navigato Alberto Cavasin, che in C2 se la cavò egregiamente. Dalla C2 alla B, grazie al ciclone Gaucci, il passo però fu troppo breve, e nel febbraio 2004 anche Cavasin fu giudicato non all’altezza del compito. In serie cadetta, la squadra era quattordicesima, Firenze voleva la serie A, l’azienda pure. Arrivò il mister tifoso Emiliano Mondonico, vecchio filibustiere che aveva navigato e vinto in tutte le serie. E soprattutto gran tifoso viola.

Mondo vinse lo spareggio, ma se ne disperò quasi. Aveva annusato che l’aria di Viale Manfredo Fanti era diventata pesante per lui e per gli eroi venuti su dalla C2. Anche lui arrivò fino al novembre successivo, poi passò la mano a Sergio Buso, allenatore fino a quel momento dei portieri. Il povero Buso resse a sua volta tre mesi, finendo vittima di logiche di sistema che andavano al di là dei suoi demeriti. La Fiorentina dei Della Valle era rimasta antipatica da subito all’establishment di quella serie A che aveva faticosamente quanto velocemente riconquistato. A Genova con la Samp finì la partita in otto, tanto per dirne una. Altro che cattivi pensieri, come quelli che vennero al Grande Timoniere Dino Zoff. Che comunque portò la squadra in salvo con una rimonta stile Chiappella 1978.

E venne Cesare, vide e vinse. Quarto posto, Champion’s League e Toni Scarpa d’Oro. Peccato che il conto di Calciopoli arrivò proprio quell’estate. Meno quindici, e tanti avvisi di garanzia. A Folgaria quell’anno al raduno di tutto lo staff societario (proprietari compresi) c’era solo lui. Diventò per la Fiorentina una specie di Alex Ferguson, salvando la squadra e portandola al terzo posto virtuale. Ma i Della Valle non tolleravano i Ferguson, al massimo i Cognigni. E quando un bel giorno Prandelli chiese conto, tra l’altro, dei proclami di vittoria entro il 2011, gli fu risposto seccamente dal patron Diego in persona: «lei è l’allenatore? E allora pensi ad allenare».

A novembre 2009 il giocattolo di Prandelli andò in pezzi. Società improvvisamente demotivata, calciatori che ressero di nervi fino al furto di Ovrebo a Monaco. Poi fu Caporetto, 17 sconfitte stagionali. Prandelli l’altra squadra se la trovò davvero, era la Nazionale, nientemeno. Ad ottobre dell’anno dopo, in visita a Firenze con gli azzurri, Andrea Della valle lo accolse con la storica frase «Un giorno mi ringrazierai». La risposta di Cesare fu altrettanto storica: «Se vuoi, posso farlo già adesso».

Sinisa Mihajlovic aveva soprattutto la colpa di venire dopo di lui, l’allenatore più amato dai fiorentini dopo BernardiniPesaola (per una sola annata, quella del secondo scudetto, dopodiché l’anno successivo già era divenuto impopolare anche lui) e De Sisti. Il serbo aveva poca esperienza, come già Vierchowod dieci anni prima, e non aveva ancora grandi idee di gioco. Soprattutto aveva un parco giocatori allo sbando. Pagò per sé e per tutti sempre di novembre (mese maledetto per gli allenatori, viola e non) nel 2011. Gli fu fatale l’ennesimo pareggio in una annata che ne vide un visibilio, avendo la squadra viola perso per strada il suo attacco stellare per squalifiche ed infortuni.

Dentro Delio Rossi, aziendalista senza azienda. Via i campioni a cui si stava spegnendo la luce, squadra che affondava nelle parti basse della classifica. Con il Novara in casa a tre giornate dalla fine, il dramma dei cazzotti a Llajic e dei due gol ospiti che stavano spingendo i viola di nuovo in B. Al risultato ci pensò il reprobo Montolivo. A salvare Rossi non poteva ormai pensarci nessuno. Le ultime due giornate in panchina andò Vincenzo Guerini, anche lui ripagato a tempo debito con un bel calcione nel fondo schiena.

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Sotto con Vincenzo Montella, un’altra scommessa. Quella  volta vinta, perché fu dotato di giocatori validi, con motivazioni di rivalsa forti. Tre quarti posti a fila, due partecipazioni alla Europa League molto buone (con possibili risultati ancora migliori sfumati per ingenuità, contro Juventus e Siviglia), una Champion’s League mancata di un soffio grazie alla supponenza del torero Pizarro contro il toro Montolivo.

Anche Montella, come Prandelli, ebbe l’ardire di chiedere in sede se eravamo questi e questi restavamo, o se invece potevamo fare il benedetto 31 dopo aver fatto il 30. Gli fu risposto che poteva rimanere al mare. Mentre partiva l’ennesima campagna plusvalenze, la società pescava l’oscuro Paulo Sousa, fresco vincitore del campionato svizzero a Basilea, che la gente però ricordava piuttosto per essere stato uno dei gobbi di Lippi.

La Fiorentina partì a razzo nella stagione 2015-16, la gente perdonò volentieri il gobbismo passato a Paulo Sousa e il depauperamento tecnico del parco giocatori alla società. Fino a Natale la squadra era prima o giù di lì. A gennaio, auspicava il tecnico prima ancora dei tifosi, qualcuno si sarebbe frugato in tasca per rinforzarla e tentare fino in fondo di ripetere qualcosa che non succedeva più dal 1969.

Tino CostaKoneBenalhouane. I sogni calcistici di Firenze morirono definitivamente all’alba del 1° febbraio 2016. Girone di ritorno da scoppiati, come l’ultimo di Prandelli. Fiorentina che terminò quinta con fatica. La gente si aspettava che il tecnico deluso rassegnasse le dimissioni, ma egli preferì lo stipendio e rimase a mugugnare e mischiare le carte già sparigliate dal ritorno di Corvino e dalla ripresa dell’Età d’Oro delle Plusvalenze. A quel punto, però, i Della Valle per i fiorentini erano dei sopravvissuti che si aspettava soltanto di poter esiliare.

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Anche Stefano Pioli, che prese il posto del portoghese nell’anno della tragedia di Astori, era ed è un aziendalista. Anche lui però era destinato a scoprire di non avere più una azienda alle spalle. Il primo anno il dramma motivò i suoi giocatori spingendoli in alta classifica, il secondo questi tornarono alla consueta mediocrità e non consentirono al mister di terminarlo.

La seconda scommessa su Montella si rivelò perdente fin dall’inizio. Perdente e onerosa, perché Della Valle nel vendere finalmente la Fiorentina riuscì a bacchettare al compratore, Rocco Commisso da Brooklyn, il mister di Pomigliano d’Arco, che al suo ritorno aveva messo in fila soltanto sconfitte salvando sé e la squadra all’ultima giornata in un surreale ed allucinante spareggio con il Genoa.

Il resto è storia attuale. Montella che continua a non indovinarne una, costringendo la società neonata ad esonerarlo a Natale. Alla sua prima stagione, Commisso deve fronteggiare il dramma della serie B incombente e si affida ad uno specialista in salvezze. Beppe Iachini, come il Beppe Chiappella di quarant’anni prima, è un innamorato della Firenze in cui ha giocato e sa come motivare giocatori non eccelsi. A chi gli chiede anche di dare un gioco alla squadra, neanche risponde. Parlerà alla fine, rivendicando il merito di avere «fatto il suo» e lasciando in mano alla inesperta società di Commisso, Barone, Pradé & c. la bollentissima patata costituita dalla sua eventuale non riconferma. Ad un mese dall’inizio del primo campionato post-coronavirus.

La tifoseria? Ringrazia e inneggia a gran voce al benservito. Nel calcio la gratitudine non esiste, a Firenze poi se si deve cadere di stile e trattare male qualcuno siamo maestri, la fila dei precedenti è lunga. Si ritorna dunque al tema iniziale. Compare sempre puntualmente lo striscione che inneggia al boia, ma la testa non sempre è quella giusta. Il fatto è che il maggiordomo ha colpa fino ad un certo punto se il servizio ed il cibo sono scadenti e l’argenteria non è di pregio.

A Firenze, in 18 anni abbiamo cambiato 14 allenatori. E due proprietari. Vorrà dire qualcosa?

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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