Chissà come si rivolterebbe nella tomba lo zio Walt, se non avesse disposto che le sue ceneri fossero disperse presso il Forest Lawn Memorial Park, a Glendale, California. Per carità, anche lui era un uomo del suo tempo, con le passioni del suo tempo. Una di queste era quella, condivisa con l’allora governatore della California Ronald Reagan e con molti suoi concittadini, che lo vedeva determinato a fare la sua parte affinché il comunismo restasse fuori non solo dalla Fabbrica dei Sogni di Hollywood, ma da tutti gli Stati Uniti d’America. Comprensibile, dati i tempi in cui viveva.
Chissà che direbbe lo zio Walt degli U.S.A. di oggi, impegnati in tante battaglie politically correct nessuna delle quali probabilmente sopravviverà ad una storiografia minimamente decente e ad una posterità minimamente consapevole. Ma soprattutto, chissà cosa direbbe dei suoi eredi, asserragliati in quella holding di Burbank in cui lui e suo fratello Roy registrarono nel 1923 la prima company e che oggi ospita una delle multinazionali e delle Majors più ricche e potenti del mondo.
Il successo non favorisce l’intelligenza, o forse oggi gli eredi di Walt e Roy hanno troppo da perdere per potersela permettere. L’America dei giorni nostri, al pari del resto del mondo occidentale, è in preda ad una decadenza intellettuale che non le consente più l’anticonformismo che nei secoli scorsi l’ha portata dov’è.
E’ tempo di revisionismo storico e culturale. Il cinema non può restarne fuori. Grease ha già avuto il bollino rosso per sessismo, Via col vento per razzismo (dimenticando che fu il film che consegnò il primo storico Oscar ad una attrice di colore, Hattie McDaniel per il ruolo di Mami). Quando parte la bambola, non risparmia nessuno. Fu così ai tempi del senatore McCarthy, è così adesso per la nuova crociata che è stata correttamente denominata cancel culture. La nostra cultura.
La vittima successiva, incredibile a dirsi anche perché si tratta in realtà di una autocensura, è la Walt Disney Company. Dopo Lilli e il vagabondo, censurato perchè i gatti siamesi erano considerati caricaturali («Siam, siam, siam del Siam, siam siamesi!»), è la volta di altre tre pietre miliari dell’animazione che hanno fatto la felicità di quattro o cinque generazioni di bambini e adulti.
Dunque, bollino rosso a Dumbo, perché una delle sue canzoni costituirebbe grave offesa alla memoria degli schiavi afroamericani: «E quando poi veniamo pagati buttiamo via tutti i nostri soldi» (a dire il vero non c’eravamo neanche accorti che canzone e riferimento storico fossero in relazione, ma guai a toccare tutto ciò che è nero, come i corvi che aiutano l’elefantino a volare….. Black lives untouchables).
Poi bollino rosso anche a Peter Pan, perché gli indiani dell’Isola che non c’é («perché noi dire augh!») vengono chiamati pellirosse. Altro dente sensibile su cui bisogna stare attenti ad appoggiare la lingua.
E per finire, almeno per ora, giù anche gli Aristogatti, perché il batterista della jazz band felina di Parigi, ancora un gatto siamese, è stato definito dai censori come caricaturale al pari di quelli di Lilli e il vagabondo, e quindi offensivo per i popoli asiatici (che a quanto pare sono assai permalosi).
Il bollino rosso significa nientemeno che i cartoni in questione saranno vietati ai minori di 7 anni, in quanto «veicolano stereotipi dannosi». Il che significa tra l’altro la rimozione degli stessi dalla piattaforma streaming della Disney. Tu paghi l’abbonamento, qualcun altro decide cosa devi vedere.
Purtroppo non c’é allo stato attuale nessuna sanzione per le azioni che veicolano la stupidità, e quindi presto o tardi dovremo morirne tutti. Se togli i cartoni Disney ai bambini tra i 2 e i 7 anni, togli loro quello che è stato per tutti noi bambini di altre generazioni un momento di gioia, di crescita, di rapporto amichevole con un mondo che ci veniva presentato nel suo lato migliore, quello dei buoni sentimenti veicolati genialmente tra l’altro da animali antropomorfi come protagonisti.
E dire che i cartoni dello zio Walt avevano anche momenti tristi, se non tristissimi, come la morte del padre di Simba il Re Leone e della mamma di Bambi, la detenzione di quella di Dumbo con tanto di lacrimoni del piccolo elefantino, le angherie subite da Cenerentola o dal Gobbo di Notre-Dame, e via discorrendo. Non risulta che nessun bambino ne abbia mai risentito nella sua crescita e nel suo benessere. E’ vero semmai il contrario, e come succedeva per le vecchie favole da cui Disney traeva i suoi soggetti, i momenti difficili erano propedeutici ai lieto fine con cui ogni bambino veniva gratificato e deliziato prima della scritta THE END.
Nessuno, da cento anni a questa parte aveva mai percepito intenti offensivi per minoranze o culture diverse. Ma nell’America di Biden e Nancy Pelosi forse è il caso che ci si prepari al peggio. L’happy end non è più assicurato, e nei prossimi cartoni è possibile che ci ritroveremo a veder vincere Crudelia DeMon e la strega Nocciola. Che nella realtà probabilmente hanno già vinto.
P.S. Oggi Yoghi e Bubu di Hannah & Barbera festeggiano i sessant’anni dalla loro prima apparizione in TV. Onore alla Metro Goldwyn Mayer che resiste saldamente alle mode del momento e che non ha ancora minimamente pensato di bollare né il ranger, né Braccobaldo, né i nostri orsetti di Yellistone.
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