Politica

L’alba della Terza Repubblica

ROMA – Sono le ore 19,30 quando Giuseppe Conte esce dallo studio del Presidente della Repubblica al Quirinale. Sergio Mattarella, e con lui tutto lo schieramento nazionale ed internazionale dei perplessi, degli attenti e di coloro semplicemente che vedono scivolare via dalle proprie mani quel potere così gelosamente custodito fino all’ultimo atto disperato del Rosatellum, ha venduto cara la pelle.

Il colloquio è durato due ore, ed è facile immaginarsi che il professore abbia dovuto affrontare la lezione più difficile della sua vita, di fronte all’allievo più esigente e peggio disposto di sempre nei suoi confronti.

La luce si stempera ormai nel tramonto, quando il Presidente del Consiglio incaricato si avvicina ai microfoni della sala stampa presidenziale, per dare agli organi di informazione ed al paese l’annuncio che tutti hanno atteso, quasi come un’agonia. Sono passati 80 giorni, lunghissimi, senza nessuna certezza malgrado il popolo avesse manifestato chiaramente la sua volontà, stavolta. 80 giorni che si sommano ai sette anni trascorsi dall’ultima volta in cui in questo studio entrò un Presidente del Consiglio designato da quello stesso popolo. Era novembre, l’anno era il 2011, e quel premier era Silvio Berlusconi, costretto a presentare le dimissioni a Giorgio Napolitano, per i motivi che ormai tutti sanno.

Tanta acqua passata sotto i ponti romani, per arrivare a questa sera, a questo tramonto che sembra per la verità un alba. L’alba di una nuova Repubblica, la Terza. L’abbiamo sognata per tutti questi anni, mentre la Seconda agonizzava e si trasformava in una Monarchia sempre meno costituzionale, una sovranità limitata sottoposta ai diktat della Kommandantur europea. Abbiamo temuto di vederla sfuggire anche stavolta come un miraggio nel deserto, quel deserto che sembrava essersi creato intorno al nostro paese, circondato ormai soltanto da altri paesi tutti ostili, i cui rappresentanti avvertono, richiamano, minacciano. Abbiamo temuto che le porte di questo studio non si aprissero mai, a causa di una volontà che pervicacemente e con dubbia legittimità costituzionale si opponeva a quella del popolo.

contegiuseppe-180524-002Alla fine le porte si aprono, e per incanto la tensione, la stanchezza, ogni timore si volatilizzano. Giuseppe Conte presenta il suo vero curriculum ai media ed alla nazione nei pochi minuti che dura il suo discorso. A testa alta, con voce ferma (e quell’aspetto decisamente nordamericano che non guasta, per quanto tempo abbiamo sognato che i nostri politici assomigliassero un po’ di più a quelli anglosassoni, soprattutto statunitensi…), il professore che da oggi si chiamerà presidente dà conto – per quanto gli è consentito – del colloquio con il capo dello Stato, dell’incarico ricevuto, delle riserve soprattutto ormai di natura squisitamente formale che lo separano dal voto di fiducia delle due Camere e dall’inizio delle sfide formidabili che lo attendono.

Colpisce, inutile negarlo, quel «sarò l’avvocato difensore degli italiani, dovunque e comunque». Hanno un bello storcere la bocca e commentare con ironia e livore i resti di quell’esercito che con orgogliosa sicurezza aveva occupato le stanze del potere in questo scorcio di ventunesimo secolo in cui sembrava che il nostro popolo di avvocati non ne avesse più, men che meno tra le fila di un partito che si chiamava democratico e che aveva la pretesa di dirsi di sinistra.

Colpisce ancora di più, al termine della conferenza stampa, vedere il premier incaricato salire su un taxi diretto a Montecitorio per la prima delle due visite istituzionali al Parlamento. Come l’autobus di Fico, si tratterà senz’altro di un espediente rivolto a sollecitare l’immaginario di un popolo che ormai detesta le auto blu quasi quanto coloro che ci viaggiano sopra. Oppure magari si tratterà di un gesto istintivo, da parte di chi finora ha vissuto nel mondo professionale e certi vezzi della politica non gli appartengono, non ancora almeno. Ma è un gesto che innegabilmente fa effetto. Il Presidente scende dal taxi dopo avere pagato la corsa di tasca sua. Non era mai successo nell’intera storia d’Italia.

E’ l’alba di un mondo nuovo. Non sappiamo ancora come sarà, dove ci porterà, se riusciremo come nazione ad essere più forti di tutti gli avversari, vecchi e nuovi, che affilano le armi per attendere al varco questo nuovo che avanza. In taxi, in autobus, sulle piattaforme internet, sui social network, in modo ancora confusamente movimentista, ma avanza.

Possiamo solo rendere grazie a Matteo Salvini e a Luigi Di Maio, ed ai movimenti di popolo di cui si sono posti alla guida, gli unici che hanno realmente proposto agli italiani il cambiamento che ormai era diventato questione di sopravvivenza, ed hanno avuto la determinazione, la lucidità, i nervi saldi occorrenti per portarlo fino a qui, nello studio del Presidente della Repubblica e poi in Parlamento per il voto dei rappresentanti di quello stesso popolo. E’ già tanta roba essere arrivati fino a qui. Il resto, come ha detto giorni fa Alessandro Di Battista, deve farlo ancora e soltanto il popolo, quello vero, stando addosso, con il fiato sul collo, a questo nuovo governo a cui dalla sera del 23 maggio – il Giorno della Legalità – sono affidate le migliori speranze d’Italia.

Auguri Presidente Conte. A lei e a noi. Ne abbiamo tutti un gran bisogno.

«Voi chiedete: qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una parola. E’ la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza» (Winston S. Churchill).

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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