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Miracolo sul ghiaccio

New York Daily News front page from February 22, 1980

Tempo di Olimpiadi, tempo di imprese sportive, di storie che diventano leggende. A volte, anche di miracoli. Come quello che andò in scena a Lake Placid il 22 febbraio del 1980.

Tra gli sport di squadra, l’Hockey su Ghiaccio è un po’ il re delle Olimpiadi invernali, come Basket e Volley lo sono di quelle estive. Nel 1980, toccava agli Stati Uniti organizzare la tredicesima edizione dei Giochi. La località prescelta, Lake Placid appunto, era una famosa stazione sciistica dello Stato di New York, al confine con il Canada. Da quelle parti, l’Hockey su Ghiaccio fa la parte del leone.

Gli U.S.A. in quella disciplina di imprese ne avevano messe a segno in passato almeno un paio. Nel 1960, nell’ottava edizione che organizzavano in casa a Squaw Walley, California, avevano messo in fila le fortissime selezioni di Canada e U.R.S.S. vincendo la prima medaglia d’oro olimpica della loro storia. Anni prima, nel 1933 a Praga avevano vinto a sorpresa il loro primo titolo internazionale, il Campionato Mondiale, superando i fortissimi padroni di casa ed il solito Canada in finale.

Ma stavolta, sarebbe servita più di un’impresa per ripetersi. Sarebbe servito un miracolo. Dave Anderson, giornalista sportivo del New York Times, scrisse alla vigilia: «A meno che il ghiaccio non si sciolga, o a meno che la squadra americana non compia un miracolo, come fece quella del 1960, ci si attende che i russi vincano la medaglia d’oro per la sesta volta negli ultimi sette tornei».

Già, i russi. L’Unione Sovietica era la favorita in molte discipline, sia estive che invernali. Il dilettantismo di stato che era la condizione giuridica dei suoi atleti consentiva all’URSS di iscrivere alle competizioni olimpiche i più grandi campioni del suo movimento sportivo, e di beneficiare in termini di propaganda dei risultati sportivi eccellenti di quei suoi campioni. Il Comitato Olimpico Internazionale non aveva ancora abrogato l’ipocrisia decoubertiniana che imponeva ai paesi partecipanti ai Giochi di farlo soltanto con portacolori non professionisti. Almeno di nome, perché di fatto – e sottobanco – molte discipline e molti atleti aggiravano da tempo l’ostacolo elargendo ed incassando lauti cachet.

Ma non ad Olimpia. Sotto i Cinque Cerchi, i paesi comunisti potevano partecipare con i migliori, quelli del blocco occidentale soltanto con atleti universitari o comunque non ancora messi sotto contratto da società professionistiche. Ciò non impediva agli USA ed ai loro alleati di primeggiare comunque in tanti sport, ma a volte le delusioni arrivavano, e cocenti. Come nel 1972 a Monaco quando la pur forte squadra americana di basket, composta da promettenti talenti universitari, fu battuta all’ultimo secondo dalla forte selezione sovietica dei fratelli Belov, Aleksandr e Sergej, e il mondo prese atto che il primato nella pallacanestro non era più un affare interno alla N.B.A.

Nel febbraio 1980, l’URSS aveva i favori del pronostico per la vittoria finale nell’Hockey. Non aveva però i favori dell’opinione pubblica per quanto riguardava la sua immagine internazionale. L’Afghanistan era stato invaso da poco dall’Armata Rossa, e in attesa di diventare con il tempo il Vietnam sovietico aveva spinto la Casa Bianca ed il suo occupante di allora, Jimmy Carter, a valutare il boicottaggio delle Olimpiadi estive che dovevano tenersi a Mosca. La decisione non era stata ancora presa in inverno, e così la delegazione sovietica si presentò a Lake Placid pensando soltanto ai risvolti sportivi di quanto la attendeva. Per quanto riguarda l’Hockey, appunto, il suo allenatore Viktor Tichonov era talmente convinto di rimettersi al collo la medaglia d’oro da risparmiare ai suoi campioni gli allenamenti più duri, trattandoli come fossero in una vacanza-studio.

Dall’altra parte, il coach USA Herb Brooks era consapevole di una cosa sola: nel clima politico che stava montando, l’occasione di dare in un modo o nell’altro al suo paese un successo di prestigio impronosticabile avrebbe consegnato lui e i suoi ragazzi all’immortalità. Per questo i dilettanti a stelle e strisce si allenarono come gladiatori, scesero in campo come un plotone di marines e travolsero tutti gli avversari fino alla sospirata finale: 4 vittorie ed un pareggio, impreziositi da un 7-3 alla Cecoslovacchia.

Dall’altra parte i sovietici si liberarono degli avversari con cinque vittorie la più striminzita delle quali fu contro la Polonia per 8-1.

Il 22 febbraio 1980 nello stadio del ghiaccio di Lake Placid scese in campo la Guerra Fredda. Da un lato i sovietici, soli contro tutti, contro una nazione intera a cui guardavano con simpatia gli occhi di mezzo mondo. Dall’altra i ragazzi di casa, accolti da Stars Spangled Banner, God bless America, e un tripudio di bandiere a stelle e strisce.

Per tre volte i russi andarono in vantaggio, per tre volte gli americani pareggiarono, mentre la bolgia dello stadio del ghiaccio e la resistenza tenace della squadra di casa incrinavano a poco a poco le certezze dei campioni in carica. Quando a dieci minuti dalla fine il disco capitò a centro area al capitano del team USA, dal nome pittoresco e destinato a passare alla storia di Mike Eruzione, e questi con freddezza lo spedì alle spalle del portiere russo Vladimir Myshkin portando per la prima volta la sua squadra in vantaggio, gli USA si concessero finalmente il lusso di pensare – credere ci avevano sempre creduto – che il miracolo potesse davvero accadere.

Miracolo si chiama appunto il film che nel 2004 la Walt Disney ha prodotto per raccontare e celebrare quella storica partita, affidando a Kurt Russell il ruolo del coach Herb Brooks. E ha raccontato in modo magistrale, epico, quella storia dai contorni di favola e di leggenda, quei dieci minuti finali in cui il fortino americano resse l’urto dell’Armata Rossa, incredula ed inferocita alla ricerca del pareggio, mentre il pubblico scatenato incitava i suoi eroi al grido incessante di U-S-A! U-S-A! che da quel giorno avrebbe accompagnato tutte le rappresentative americane nelle loro prestazioni sportive. Quei secondi finali in cui lo stesso pubblico scandì il countdown verso la vittoria ed il titolo contagiando perfino Al Michaels, il telecronista della ABC che sarebbe stato nominato telecronista dell’anno per il modo in cui aveva coperto l’evento:

«Undici secondi, vi restano dieci secondi, stanno contando alla rovescia in questo momento… Morrow passa a Silk, restano cinque secondi di gioco! Credete nei miracoli? Sì!»

La storia, prosaicamente come tutto ciò che è cronaca, registra la vittoria per 4-3 degli USA sugli URSS. E il fatto che, essendo il girone finale all’italiana, quella partita tecnicamente – per quanto decisiva – non era l’ultima, la finale. Restava da giocare il match contro la pur forte Finlandia, che però dopo il miracolo compiuto sembrò agli USA una partita normale. I finnici furono travolti per 4-2, e l’ennesima frase storica di Al Michaels, «Questo sogno impossibile diventa realtà!», passò quasi in secondo piano. La gente a stelle e strisce aveva dato tutto emotivamente in quel countdown di due giorni prima.

I ragazzi di Herb Brooks avevano vinto la Guerra Fredda. Il miracolo era avvenuto e sarebbe rimasto nella storia e nell’epica nazionale.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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