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Non in nostro nome

C’é qualcosa che non funziona nel nostro ordinamento giuridico, lo diciamo da tempo. Un male oscuro – o forse anche troppo chiaro – che ne rende farraginoso ed inadeguato il funzionamento, e farsesche spesso le risultanze.

Andiamo con ordine, anzi, in ordine di magistrature. La più alta, quella della Corte Costituzionale, si è pronunciata giorni fa a proposito del referendum proposto da otto amministrazioni regionali governate dal centrodestra per l’abolizione di quella parte della legge elettorale che mantiene in vita il sistema proporzionale assieme al premio di maggioranza del 40% alla lista o alla coalizione con più voti. La Corte si è pronunciata rigettando il referendum, con la motivazione che si tratta di un quesito «eccessivamente manipolativo». Il referendum, se avesse avuto successo, a detta della Consulta avrebbe lasciato dietro di sé una legge elettorale inapplicabile, che non avrebbe consentito il ricorso al voto.

Sergio Mattarella ai tempi del Mattarellum

Sergio Mattarella ai tempi del Mattarellum

Motivazione capziosa e difficilmente non giudicabile come di parte. La difesa della Costituzione ed il rispetto della prassi costituzionale qui c’entrano poco. E’ dal 1993 che il popolo italiano chiede il maggioritario puro. Allora un oscuro parlamentare DC poi diventato membro della Corte, l’attuale presidente della repubblica Mattarella, si incaricò di far sì che non lo ottenesse. La Consulta si è mantenuta nel solco di quella che ormai è una tradizione. Il maggioritario puro non è ammissibile, non può funzionare. Ci sono aspetti tecnici di dettaglio nella sentenza, ma preferiamo risparmiarli al lettore, perché dimostrano soltanto come il nostro corpus iuris si stia completamente scollando dalla nostra società, dal paese reale. Per la Corte, a farla breve, è legittimo invece rimanere con il proporzionale puro, e avallare l’atteggiamento di un governo che ha già cantato vittoria trincerandovisi dietro, a garanzia per esso di imperitura sopravvivenza.

Carola Rackete

Carola Rackete

A stretto giro di posta è arrivato anche il pronunciamento della Corte di Cassazione a proposito del caso Sea Watch – Carola Rackete. La capitana di ventura, com’é noto, si spinse fino a speronare una nave della nostra guardia costiera pur di ottenere lo sbarco per il suo carico umano clandestino. La più famosa delle negriere del nostro tempo era tuttavia stata rilasciata subito dopo il fermo, e avverso questa decisione aveva presentato ricorso il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, evidentemente in quel momento non convinto come in precedenza delle buone ragioni di chi vuole entrare in Italia con la forza e non con il diritto. La Rackete, disse il gip Alessandra Vella e conferma adesso la Cassazione, agì (a suo dire) «per salvare vite umane», un dovere evidentemente superiore a quello del rispetto delle leggi italiane ed internazionali. Precedente non di poco conto: ognuno dunque sa come d’ora in poi comportarsi, ai sensi di questo pronunciamento della Cassazione, qualora si trovasse di fronte ad un posto di blocco delle forze dell’ordine e avesse furia di tornare a casa per motivi suoi insindacabili.

Tertium non datur, dice un vecchio motto latino. E invece sì. Si avvicina il voto alla Giunta per le immunità del Senato sulla richiesta di rinvio a giudizio dell’allora ministro dell’Interno Salvini da parte della già citata Procura di Agrigento. Stavolta Patronaggio gioca nel campo avverso alle istituzioni, almeno quelle istituzioni che erano in carica il giorno in cui fu negato il diritto di sbarco all’ennesimo contingente di clandestini, quello tratto in salvo dalla nave militare italiana Gregoretti.

La farsa ha preso il via da tempo. Sulla richiesta di Patronaggio PD e M5S si sono gettati in un primo tempo a corpo morto, senza – come succede loro spesso – riflettere. Alla faccia compiaciuta di Di Maio circa i guai dell’ex collega Salvini sono seguite ben presto facce serie, non appena i più avveduti tra i gialli e i rossi si sono resi conto di che trappola è quella in cui loro stessi si sono andati a cacciare.

Quella parte del governo Conte 2 che era in carica al tempo del Conte 1 dovrebbe preoccuparsi della chiamata di correo, se prevalesse il principio della colpevolezza di Matteo Salvini in ordine al reato imputatogli di sequestro di persona. Ma siccome probabilmente prevarrà l’ovvio concetto che l’allora ministro agì in difesa degli interessi nazionali e facendo il proprio dovere nell’esercizio delle proprie funzioni, una risata finirà per seppellire questa come ogni altra iniziativa del suddetto governo Conte bis e dei partiti che lo sostengono.

Nel frattempo però, a ridosso della votazione per l’elezione del consiglio regionale e del governatore dell’Emilia Rimagna (che potrebbe avere per le forze di governo lo stesso epocale effetto che ebbe l’iceberg per il Titanic), sempre i soliti più avveduti hanno valutato che non fosse il caso di fare altra campagna elettorale a gratis al centrodestra, e hanno chiesto alla presidente del Senato Casellati il rinvio della votazione.

MariaCasellati200120-001

Maria Elisabetta Alberta Casellati

La Casellati ha risposto picche. Ovviamente, a differenza delle corti predette subito beatificate, si è meritata dall’area di governo l’appellativo di faziosa. Si vota oggi, in commissione e poi se del caso in aula. Salvini ha già giocato la briscola, invitando i senatori (leghisti compresi) a rinviarlo a giudizio, nel presupposto fondato che non esisterà tribunale abbastanza grande per contenere tutto il popolo italiano che è dalla sua parte ed in nome del quale ha legittimamente agito. «Facciamola finita, e chiariamola una volta per tutte», ha detto. Difficile dargli torto, nel paese dove si è colpevoli fino a prova contraria ed indagati a vita. Nel paese dove da anni la Lega fa campagna elettorale sub judice, sotto la minaccia costante del sequestro dei beni o addirittura degli arresti da parte del giudice di turno.

Matteo Salvini:

Matteo Salvini: «Facciamola finita, e chiariamola una volta per tutte»

Dovrebbe finire nell’ennesima sciacquonata per chi si picca di chiamarsi attualmente forza di governo, e nell’ennesimo trionfo parziale per chi aspira a diventarlo, in attesa del risultato dell’Emilia. Il paradosso è che i senatori giallorossi usciranno dall’aula della Giunta per non dover dar corso alla sciocchezza commessa arrivando a votare SI, mentre Salvini sarà salvato dal centrodestra residuo (Meloni, Berlusconi) che voterà No contro l’unico SI dei leghisti qualora obbedissero alla direttiva politica del loro segretario.

Un gran guazzabuglio, uno spettacolo indegno (non per colpa di Salvini). L’Italia al tempo dei Mattarella, dei Conte, e di troppi magistrati che tengono in conto l’aria che tira (o vorrebbero tirasse) piuttosto che i quattro codici ed i manuali di diritto.

Una preghiera. D’ora in avanti, dalle vostre sentenze togliete per favore quel in nome del popolo italiano che francamente a questo punto è un oltraggio che nessuno dei disgraziati cittadini di questo paese si merita.

CortediCassazione200120-001

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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