Calcio

Storia dei Mondiali di calcio: Italia 90

Baggio e Schillaci
"Ciao", la mascotte di Italia 90, una via di emzzo tra Pinocchio ed il Cubo di Rubik

Ciao, la mascotte di Italia 90, una via di mezzo tra Pinocchio ed il Cubo di Rubik

«Forse non sarà una canzone/a cambiare le regole del gioco/ma voglio viverla così questa emozione/senza frontiere e con il cuore in gola». Sulle note della canzone di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, all’avvicinarsi dell’estate 1990 un intero paese era praticamente regredito allo stato infantile. Un’estate italiana era qualcosa di più di un tormentone musicale, era diventato l’inno di un intero paese in sostituzione di quello di Mameli. Un paese che non aspettava che di mettersi a giocare a pallone e per un mese non pensare ad altro.

Nel 1984 la F.I.F.A., dopo aver deciso il ritorno in Messico per la tredicesima edizione della Coppa del Mondo di calcio, aveva deciso un altro grande ritorno anche per la quattordicesima. Il dirigente federale di lungo corso Franco Carraro, poi soprannominato il poltronissimo, aveva avanzato la candidatura per conto dell’Italia, e non aveva trovato ostacoli. La F.I.F.A. battezzò in un batter d’occhio Italia 90, e Carraro divenne il presidente del comitato organizzatore del secondo mondiale che si sarebbe disputato nella nostra penisola, dopo quello del 1934.

La macchina organizzativa di Italia 90, sotto la guida operativa di Luca Cordero di Montezemolo – ex tante cose, ma soprattutto ex direttore sportivo della Ferrari nel quadriennio d’oro di Niki Lauda e poi della spedizione di Azzurra a Newport, Rhode Island, per la Coppa America di vela 1983 – si mise in moto nel 1986, mentre si disputava il Mundial messicano. Le parole d’ordine di quell’impresa italiana le avevano dettate all’unisono proprio Carraro e Montezemolo: «realizzare un sogno, per fare del mondiale una vetrina dell’Italia tecnologica e industriale proiettata verso il Duemila». Qualcuno peraltro non tardò a tradurre questo slogan in parole povere, definendo quell’organizzazione con il termine suggestivo di truppe d’appalto.

Lo Stadio Comunale di Firenze prima di Italia 90

Lo Stadio Comunale di Firenze prima di Italia 90

Alla vigilia del secondo mondiale italiano, i nostri stadi erano oggettivamente più o meno quelli costruiti all’epoca del primo. Dagli anni trenta era stato fatto, o rifatto, poco o nulla, e per adeguarsi alle norme F.I.F.A. necessitavano opere pubbliche ingenti. Il governo De Mita stanziò per la realizzazione di queste opere qualcosa come 6.000 miliardi di lire. Secondo la prassi invalsa nel Belpaese e che poi sarebbe venuta alla luce pochi anni dopo nell’ambito dell’inchiesta Mani Pulite, era pressoché inevitabile che un simile giro d’affari consegnasse alla storia Italia 90, dal punto di vista della finanza pubblica e della realizzazione di grandi opere civili ed infrastrutturali, come una delle possibili madri di tutti gli scandali.

Lo Stadio San Nicola di Bari

Lo Stadio San Nicola di Bari

Nel mese in cui il mondo si sarebbe fermato per una nuova tregua sportiva ed il football sarebbe tornato in una delle sue case (per parafrasare i cosiddetti maestri inglesi) di quando ancora si chiamava calcio, era previsto che si disputassero 52 partite in ben 12 città italiane. In molti casi si optò per un restyling dell’esistente, come a Firenze dove lo Stadio Comunale fu riadattato fin dove il vincolo della Soprintendenza alle Belle Arti sul gioiellino di Pier Luigi Nervi lo consentiva, con l’eliminazione della pista d’atletica e anche del muro esterno che fasciava parzialmente le scale d’accesso e le fiancate dello stadio. In altri casi, come quello del Delle Alpi di Torino e del San Nicola di Bari, si andarono a costruire appositamente nuovi impianti, alla vista dei quali le cittadinanze interessate cominciarono però ben presto a storcere la bocca, sia per il risultato estetico finale che per il costo.

Etrusco Unico, il pallone Adidas per Italia 90

Etrusco Unico, il pallone Adidas per Italia 90

Ma nella primavera del 1990 erano poche le voci di dissenso che riuscivano a farsi udire nel clima di euforia generale con cui ci si apprestava ad assistere al primo calcio a Etrusco Unico, il pallone ufficiale realizzato dall’omnipresente e omnisponsorizzante Adidas per Italia 90. In quei mesi, peraltro, non solo nel Belpaese si viveva una specie di ritorno collettivo all’adolescenza. Erano una sorta di primavera del Mondo, che aveva appena subito cambiamenti importanti e determinanti e che da essi traeva nuove ragioni di speranza.

Nell’autunno dell’anno precedente era venuto giù nientemeno che il Muro di Berlino. Questo significava non soltanto che Italia 90 sarebbe stato l’ultimo torneo mondiale a cui si sarebbe presentata una Germania con la didascalia Ovest, una federazione denominata U.R.S.S. ed un’altra denominata Jugoslavia. Significava la fine della Guerra Fredda, quell’equilibrio del terrore che per 40 anni aveva tenuto il mondo intero sul filo del rasoio di una pace precaria e obbligata dalle testate nucleari. Qualcuno parlava addirittura di fine della storia, molti più semplicemente avevano ritrovato la voglia di giocare alla fine di un lunghissimo inverno. Di lì a poco sarebbe esplosa la questione del Kuwait, che avrebbe portato alla prima Guerra del Golfo e al ritorno alla realtà più confacente ad una razza umana per la quale i periodi di pace sono sempre stati brevi e precari. Ma al momento di sorteggiare i gironi di Italia 90, mentre risuonavano le note di To be number one di Giorgio Moroder o della versione nostrana, Un’estate italiana di NanniniBennato, tutto questo era di là da venire, o anche solo da immaginare.

Il mondo stava cambiando anche nel calcio, se è vero che potenze come la Germania Ovest ed il Brasile faticarono non poco a qualificarsi ad Italia 90, rischiando di restare a casa. Cosa che accadde per la Francia e la Polonia, rispettivamente orfane ormai di Platini e Boniek. Una nuova generazione di campioni si era affacciata sul palcoscenico. L’Olanda aveva rimesso insieme una truppa degna della mitica e sfortunata armata del 1974. Gullit, Van Basten, Rijkaard avevano fatto grande il Milan di Arrigo Sacchi, ma soprattutto avevano vendicato Cruyff e compagni, andando a vincere l’Europeo del 1988 proprio in Germania a spese dei padroni di casa e dell’U.R.S.S.

World Cup ITALIA90, Italy: Walter Zenga, Paolo Maldini, Fernando De Napoli, Riccardo Ferri, Giuseppe Bergomi, Giuseppe Giannini, Roberto Baggio, Salvatore Schillaci, Roberto Donadoni, Franchino Baresi, Luigi De Agostini, Italy1-0 Irerand Republic at Roma, 1990.6.30. Sat. Photo by Masahide Tomikoshi / TOMIKOSHI OHOTOGRAPHY

Da sinistra in alto: Walter Zenga, Paolo Maldini, Fernando De Napoli, Riccardo Ferri, Giuseppe Bergomi. In basso: Giuseppe Giannini, Roberto Baggio, Salvatore Schillaci, Roberto Donadoni, Franco Baresi, Luigi De Agostini.

Ma i favori del pronostico in quel 1990 andavano principalmente all’Italia, e non solo perché avrebbe giocato in casa. Mentre a Città del Messico si concludevano mestamente i giorni di Enzo Bearzot e dei suoi ragazzi che una volta erano saliti sul tetto del mondo, a Valladolid la Under 21 azzurra cedeva ai rigori il titolo europeo di categoria ai pari età della Spagna, allenata da una vecchia conoscenza del calcio italiano, Luisito Suarez, uno dei fuoriclasse della grande Inter di Herrera. Malgrado la sconfitta, i ragazzini italiani erano stati elogiati per il bel gioco messo in mostra, ed il merito era andato anche giustamente al loro mister, Azeglio Vicini, un tecnico che al pari di Enzo Bearzot aveva fatto tutta la trafila all’interno della Federazione.

La F.I.G.C. non poteva che prendere atto del dono della sorte, e travasò nella nazionale maggiore tecnico e giocatori. La nouvelle vague italiana si comportò bene all’europeo di Germania, costringendo al pareggio i padroni di casa e battendo le forti Spagna e Danimarca prima di cedere all’U.R.S.S. in semifinale. Qualificata di diritto al mondiale in quanto ospitante, l’Italia aveva raccolto comunque consensi in tutte le sue apparizioni anche amichevoli, a cominciare da quella di lusso a Zurigo contro l’Argentina campione del mondo in carica il 10 giugno 1987, conclusasi con la vittoria per 3-1 degli azzurri. Dal portiere Walter Zenga al centravanti Gianluca Vialli, passando per Franco Baresi ed il principe Giuseppe Giannini, la nostra sembrava proprio una squadra di predestinati.

A Italia 90 si presentarono 24 squadre che si sarebbero eliminate a vicenda con la stessa formula di Messico 86: Austria, Belgio, Cecoslovacchia, Germania Ovest, Inghilterra, Irlanda, Jugoslavia, Italia, Olanda, Romania, Scozia, Spagna, Svezia e U.R.S.S. per l’Europa, Argentina, Brasile, Colombia e Uruguay per il Sudamerica, Costa Rica e Stati Uniti per l’America Centro-Nord, Corea del Sud e Emirati Arabi Uniti per l’Asia, Camerun ed Egitto per l’Africa. L’Italia ebbe sorteggiato un girone apparentemente facile, in realtà assai ostico, con Austria, Cecoslovacchia e Stati Uniti, che avrebbero giocato tra Roma e Firenze.

Baggio e Schillaci

Baggio e Schillaci

Come era successo in Argentina con Paolo Rossi e Antonio Cabrini, all’ultimo momento alla comitiva azzurra si erano aggiunte quelle che sarebbero risultate poi le stelle più brillanti: Salvatore Schillaci, il bomber esploso in tarda età nella Juventus, e Roberto Baggio, il talento esploso giovanissimo nella Fiorentina. Ma se per Totò non c’erano stati problemi di inserimento nel corpo di una squadra già collaudata dai diversi anni durante i quali aveva giocato sempre assieme, per il Codino le cose erano destinate ad andare diversamente.

Mentre l’Argentina ripeteva la sconfitta nella partita inaugurale di otto anni prima (1-0 dal sempre più sorprendente Camerun, capace di resisterle in nove uomini), l’Italia esordì all’Olimpico di Roma contro l’Austria, e per ben 78’ minuti vide le streghe. Giocavano bene gli azzurri, ma non trovavano la porta, dando coraggio agli austriaci man mano che il tempo passava. Finché Vicini si risolse a togliere il centravanti titolare Carnevale e a buttare dentro Schillaci, che lo ripagò segnando un minuto dopo la prima delle sei reti con cui sarebbe diventato capocannoniere di quel torneo.

La Cecoslovacchia aveva marcato cinque reti agli U.S.A., l’Italia nella seconda partita gliene fece solo una. Se la nazionale di Vicini aveva un difetto era quello di segnare molto meno di quanto avrebbe potuto. Nella terza partita bisognava battere i cechi, altrimenti a Roma ci sarebbero rimasti loro. Al 9’ segnò subito Schillaci, poi l’arbitro francese Quiniou annullò ai nostri avversari un gol dubbio. Quindi si assisté al replay del gol di Maradona in Messico all’Inghilterra. Solo che stavolta lo segnò un ragazzo italiano, Roberto Baggio da Caldogno, messo nella ripresa da un Vicini non troppo convinto a rivitalizzare la manovra azzurra.

Negli altri gironi, l’Argentina riuscì a qualificarsi soltanto come migliore terza, e sembrava destinata a fare poca strada. Pochi problemi per Germania, Inghilterra, Spagna e Brasile, mentre l’Olanda incredibilmente si qualificava anch’essa tra le terze ripescate. Agli ottavi cominciarono le sorprese. L’Argentina sembrava invecchiata e malmessa rispetto a quattro anni prima, malgrado un Maradona ancora nei suoi panni. Una facile preda per il Brasile capitanato da Dunga il cucciolo e registrato all’europea da Sebastiao Lazaroni, il tecnico peraltro più contestato dell’intera storia verdeoro. L’1-0 in contropiede con cui fu eliminato dagli odiati rivali biancocelesti rappresenta uno dei peggiori risultati brasiliani ai mondiali.

Il pareggio di Caniggia a Napoli

Il pareggio di Caniggia a Napoli

Anche la Spagna si fece eliminare dalla Jugoslavia, mentre l’Olanda usciva per mano della Germania (dopo che la partita era diventata una rissa, con gli olandesi che avevano perso il controllo dei nervi). L’Italia venne a capo dell’Uruguay non senza fatica, grazie al solito Schillaci che si ripeté poi anche nei quarti contro l’Eire. Gli azzurri avanzavano nel mondiale giocando bene ma segnando poco, con un Vialli in precarie condizioni di forma e un Baggio sottoutilizzato da Vicini. Anche gli altri segnavano poco. L’Inghilterra passò solo ai supplementari contro il Camerun per il quale non c’erano più aggettivi se non positivi. La Germania regolò la Cecoslovacchia con il minimo sforzo e l’Argentina la Jugoslavia ai rigori.

In semifinale, l’Italia era accreditata di ogni pronostico contro un’Argentina che sembrava aver fatto anche troppo ad arrivare dov’era arrivata. Si giocava però a Napoli, in casa di Maradona che non mancò di sfruttare il fattore campo avviando nel pre-partita una polemica indirizzata a far sì che i suoi tifosi si rivoltassero contro il proprio paese (chiamato matrigna) a suo esclusivo vantaggio. Napoli purtroppo cadde nella trappola, e come già Firenze – scottata dal passaggio di Baggio dalla Fiorentina alla Juventus e dall’esito avvelenato della finale di Coppa UEFA sempre contro i bianconeri – finì per fare almeno in parte il tifo contro la nazionale azzurra.

La maledizione dei rigori: Argentina in finale

La maledizione dei rigori: Argentina in finale

Il 3 luglio 1990 è un giorno amaro nella storia della Nazionale italiana. Vicini schierò Vialli fuori condizione, e tenne fuori Baggio che di condizione ne aveva da vendere. Fu il primo di una serie di allenatori italiani che non seppe cosa fare di un talento immenso come quello del Codino, come se Hidalgo avesse lasciato fuori Platini o Bilardo Maradona. Il solito Schillaci portò avanti gli azzurri, che sembravano dominare una delle peggiori Argentine di sempre, almeno finché Caniggia non uccellò Zenga sorprendendolo in una uscita che sembrava senza problemi. Gli assalti furibondi degli azzurri per ritornare in vantaggio, con la tardiva immissione di Baggio, non ebbero esito. Ai calci di rigore, furono determinanti gli errori di Donadoni e Serena, gente che avrebbe dovuto trasformarli ad occhi chiusi. L’Argentina invece non ne sbagliò uno e andò in finale. Per l’Italia le notti magiche si interrompevano bruscamente, e cominciava la notte fonda avvelenata dalla maledizione dei calci di rigore che l’avrebbe perseguitata per tutti gli anni 90.

Nell’altra semifinale stessa storia tra Inghilterra e Germania. Anche gli inglesi avevano un’idiosincrasia per i rigori, e cedettero il passo a una Germania che fin lì aveva fatto tutto bene e niente benissimo. L’Inghilterra finì a giocare la finale di consolazione al San Nicola di Bari, battuta da un’Italia troppo tardi rivitalizzata da Roberto Baggio, che concluse al terzo posto un Mondiale già vinto prima ancora di giocare.

Hijos de puta.....

Hijos de puta…..

L’8 luglio all’Olimpico il pubblico romano si trovò di fronte per l’atto conclusivo due squadre per le quali non provava francamente alcuna simpatia. La Germania praticamente da sempre non rientrava tra quelle squadre (e tra quei paesi) per cui gli italiani stravedevano. L’Argentina lo era diventata pochi giorni prima scippando la finale all’Italia. Alla fine prevalsero nella scelta le polemiche di un Maradona ormai decisamente poco simpatico nel paese dove aveva giocato per sei anni. I romani fischiarono l’inno argentino, l’ex pibe de oro rispose con un «hijos de puta» in mondovisione.

Fu a detta di tutti la più brutta finale di sempre di un Mondiale. Gli argentini cercarono di ripetere con i tedeschi il gioco riuscito fino a quel momento: tirarla per le lunghe con le buone o meglio se con le cattive, e sperare. I tedeschi risposero colpo su colpo. Alla fine decise un rigore negli ultimi minuti che Brehme trasformò dando alla sua nazionale la terza vittoria mondiale contro un avversario ridotto in nove uomini. Dopo la riunificazione, a Berlino c’era adesso qualcos’altro da festeggiare e di sicuro la Germania avrebbe ricordato a lungo le notti magiche, a differenza dell’Italia alla quale in fondo restavano soltanto una serie di cattedrali del deserto e tanto, tanto rimpianto.

Germania, per l'ultima volta Ovest, per la terza volta campione

Germania, per l’ultima volta Ovest, per la terza volta campione

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

Lascia un commento