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Euro 2020 – I rigori dicono ancora Italia, campioni d’Europa

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Ci sarà sempre un’Inghilterra, recita un celebre slogan che i frequentatori di Carnaby Street e dei luoghi sacri del turismo in terra inglese conoscono bene. Ma non sarà più quella che eravamo abituati a conoscere.

In pochi minuti, il paese che ha insegnato a tutti il fair play prima ancora che il calcio dissipa il suo immenso e storico capitale morale offrendo in eurovisione il brutto spettacolo dei tafferugli anti-italiani che riportano alla mente gli anni bui degli hooligans, dell’Inno di Mameli fischiato dalla immensa platea di Wembley e delle medaglie d’argento rabbiosamente strappate dal collo dai giocatori che a quel punto erano gli unici inglesi rimasti ad assistere alla premiazione degli avversari che credevano di aver già messo sotto e che invece hanno trovato la settima vita, come un gatto di strada. E hanno messo sotto loro, dopo Belgio e Spagna, un’Inghilterra che credeva di essere ritornata quella del 1966.

Peccato, la delusione inglese è comprensibilmente tanta, la classe ormai veramente poca. Gli azzurri hanno vinto con merito, senza una sola decisione arbitrale a proprio favore in modo discutibile, pur partendo in maniera scioccante con il cazzotto allo stomaco del gol di Shaw subito dopo appena due minuti. Ma reagendo tuttavia da par loro, con orgoglio e quel ritrovato posesso palla insistito ed a volte addirittura esasperato che sembrava la sera meno adatta per riuscire a riproporre. E alla fine sugli spalti dello stadio quasi interamente bianco è rimasto solo l’azzurro, mentre sul prato il solo Gareth Southgate si preoccupava di salvare almeno l’onore nazionale andando a stringere la mano a Roberto Mancini.

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Il CT che ha vinto la scommessa con il destino e con la storia aveva inizialmente riproposto l’undici schierato contro la Spagna, così come Southgate aveva riproposto quello anti-Danimarca, con Trippier a fare da tridente offensivo insieme a Kane e Sterling.

Un tridente micidiale come quello di Poseidone durante una delle sue furie. La difesa italiana era l’unica che poteva competere sulla carta con quella inglese (tre gol presi dagli azzurri contro uno solo dai bianchi), ma evidentemente al fischio d’inizio era ancora ad assistere alla fine del match di Matteo Berrettini, perché si è fatta infilare come un chicken english muffin. Shaw tira al volo con il solo Di Lorenzo nei suoi paraggi, il quale è più preoccupato di non esporre le mani (si temevano le decisioni arbitrali alla vigilia, ma l’arbitro olandese Kuipers è stato al di sopra di ogni sospetto per tutto il match) che di marcare il terzino inglese.

Gran gol e uno a zero per loro, Wembley più bolgia che mai e azzurri frastornati per una buona mezz’ora. Sembra di essere tornati agli anni settanta, allorché le nostre squadre di club salivano da queste parti per sottoporsi ad un assedio di Fort Apache più o meno allucinante. Gli azzurri si ritrovano schiacciati indiero e sballottati come una squadretta qualsiasi, mentre Mancini è livido in volto e urla di salire. L’ultima cosa che i nostri sembrano in grado di fare. Qualcuno dai microfoni RAI parla di maggiore qualità da parte nostra, ma per quello che si vede sul campo la qualità è tutta soprendentemente da parte inglese.

Soffriamo anche più che contro la Spagna, e ci vuole una buona mezz’ora prima che Federico Chiesa assecondi l’ispirazione e mostri ai compagni che si può uscire dal fortino ed andare a restituire lo sgarbo, con una travolgente azione personale conclusa con un tiro fuori di veramente poco, a Pickford non si sa quanto già battuto.

E’ un segnale, come la tromba del Settimo Cavalleria e la rimboccata di maniche di Valentino Mazzola prima del quarto d’ora granata. Gli azzurri sembrano scuotersi, mentre negli inglesi si insinua una fino a quel momento sconosciuta apprensione. Il baricentro loro arretra, o forse è il nostro che sale. E peccato che davanti un Immobile troppo isolato ed in scarsa giornata non sia effettivo come terminale offensivo.

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Anche Insigne annaspa in mezzo ad avversari a cui rende ad andar bene una ventina di centimetri di altezza, l’attacco è affidato alle prodezze di uno strepitoso Chiesa almeno fino al quarto d’ora della ripresa, quando Pickford è costretto a superarsi parando il tiro di prepotenza del nostro numero quattordici scoccato da ben dentro l’area inglese.

Da lì in poi, complici anche i primi cambi operati da Mancini con Cristante al posto di un poco efficace Barella e Berardi a quello di un Immobile sempre più fuori partita, complice anche l’inevitabile calo di fiato delle ire di dio inglesi (con Chiellini che ormai ha preso le misure a Kane e gli restituisce una sportellata dietro l’altra), la musica cambia. Ed è una musica azzurra per orchestra. Comincia il tiki taka italiano, e lo stadio comincia a fischiare e a mugugnare ad ogni passaggio degli italiani. Ma adesso lo fa per paura. Il gioco in campo è duro, prima ne fa le spese Jorginho, che dopo lunga medicazione a bordo campo decide che ce la fa e resta della parttia, poi lo stesso Chiesa, che invece – pur a denti strettissimi – deve alzare bandiera bianca lasciando il posto all’amico Bernardeschi. Nel frattempo, Berardi si è mangiato la prima di due occasioni grosse come lo stadio in cui gioca, ma soprattutto è arrivato il pareggio italiano. Ad opera della immancabile vecchia guardia.

A venti minuti dalla fine, su corner stacca Verratti che manda la palla sul palo. Non può intervenire Chiellini che subisce fallo, ma può farlo Bonucci che insacca. 1 – 1, e lo stadio, qualunque sia il colore che espone, si rende conto che adesso il match è girato.

Peccato non avere noi Harry Kane, perché lo chiuderemmo subito. Se si può trovare un difetto alla squadra azzurra è l’insistenza sul palleggio laterale che a volte diventa quasi indisponente evitando quasi sistematicamente verticalizzazioni e finalizzazioni. E’ anche vero che questa Italia abbonda di centrocampisti e latita di attaccanti. Berardi è troppo leggero e poco cattivo, Belotti si perde a fare a spallate con i difensori inglesi né più e né meno come faceva Immobile.

Bisogna sperare in un inserimento da dietro, ci provano Cristante, Bernardeschi e lo stesso gallo, ma mancano sempre o di potenza o di precisione. In compenso si riaffaccia dalle parti di Donnarumma l’Inghilterra, con Sterling che riprende il suo saggio di danza classica e la serie dei tuffi dal trampolino. Kuipers non abbocca mai, ma il segnale arriva agli azzurri, che nell’ultimo tempo supplementare mostrano anch’essi la lancetta del serbatoio in rosso.

Di nuovo ai rigori, il karma e la dannazione eterna di queste due squadre. Southgate opera cambi ad hoc negli ultimi secondi prima del 120°, mettendo dentro Saka, Rashford e Sancho. Degli specialisti, gente che non lo tradirà come lui stesso si tradì da solo venticinque anni fa, davanti a questa stessa porta.

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Gli dèi si divertono a vedere gli umani tirare i rigori. Si nutrono della tensione, della sofferenza e del dolore finale di chi ne ha sbagliato uno di troppo. Negli ultimi anni, quegli dèi hanno ripreso a ben volere l’Italia. Mentre hanno ancora in gran dispetto la povera Inghilterra. Anche stasera il thrilling ha un lieto fine per i nostri colori, ma la trama si svolge in modo completamente diverso. Segnano per noi Berardi e Bernardeschi, in mezzo a loro l’errore di Belotti. L’Inghilterra va sul sicuro con Kane e Maguire, ma è Rashford a tradirla cincischiando in rincorsa e spedendo la palla sul palo. Bonucci timbra il cartellino, lo specialista Sancho no, consentendo a Donnarumma il primo miracolo. Matchball per Jorginho, che stasera però ha le caviglie malconce e si fa intuire il tiro da Pickford. Va sul dischetto Saka per pareggiare i conti ed allungare la serie, ma i sogni suoi e di tutta l’Inghilterra si frantumano sul guantone del portierone italiano, che si guadagna per sé il titolo di miglior giocatore del torneo e per la sua Nazionale il titolo che dopo il 1968 non aveva più vinto, sfiorandolo soltanto due volte.

Il karma dice: Inghilterra di nuovo all’inferno, Italia in paradiso. Alla cui esistenza ci credevano fino ad un mese fa soltanto quei due ragazzi di quasi sessant’anni che adesso si abbracciano piangendo nell’area tecnica italiana, e qualcun altro del loro staff, ex campioni del mondo come Oriali e De Rossi. Improvvisamente, ci crede tutta l’Italia che esce da una quarantena che sembrava dovesse essere infinita, in tutti i sensi.

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C’é soltanto azzurro stanotte sugli spalti di Wembley, quando Chiellini porta ai suoi compagni la Coppa Delaunay, e partono coriandoli e fuochi d’artificio. Dall’altoparlante dello stadio che finalmente è il nostro stadio, partono le note di Notti magiche di Nannini e Bennato.

Sono tornate le notti magiche, finalmente. E questa volta non ci sveglieremo più.

Ve la ricordate? E’ arrivato il momento di riascoltarla:

To Be Number One (Summer 1990)

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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