Il 12 ottobre 1946 il ministro della guerra del primo governo della neonata Repubblica Italiana Cipriano Facchinetti comunicò al Consiglio dei Ministri che il giuramento delle Forze Armate che doveva aver luogo il successivo 4 novembre si sarebbe svolto al suono del Canto degli Italiani, in qualità di inno nazionale provvisorio. La provvisorietà dalle nostre parti è a volte interminabile, confinante con l’eternità.
Per settant’anni circa, il Canto composto da Goffredo Mameli è rimasto l’inno d’Italia sulla base di quella semplice comunicazione di Facchinetti. Il decreto che nelle intenzioni del Ministro Facchinetti doveva confermare l’Inno di Mameli oppure eventualmente sostituirlo non fu mai approvato, né da quel governo né dai successivi. Gli italiani in compenso erano abituati a cantarlo da esattamente cento anni, sia che si trattasse di scacciare il nemico invasore sia di assistere a una funzione pubblica civile o a una partita della Nazionale di calcio o di qualunque altra rappresentativa italiana in ambito sportivo.
Goffredo Mameli era un giovane patriota affiliato alla Massoneria. Come tale, a circa vent’anni nel 1847 mentre si preparava a immolare la sua giovane vita a difesa della Repubblica Romana (sarebbe morto il 6 luglio 1849, una delle ultime vittime italiane prima della resa), aveva composto questo Canto degli Italiani che originariamente doveva essere indirizzato ai propri fratelli massoni per esortarli a fare la propria parte nella riconquista dell’indipendenza nazionale.
Quello che il giovane eroe risorgimentale non poteva immaginare era che il suo Canto era destinato da subito ad una fortuna insperata, diventando rapidamente l’Inno più importante tra quanti venivano cantati dagli italiani che accorrevano a combattere le varie Guerre di Indipendenza. Mameli aveva mandato le sue parole al maestro Michele Novaro, suo concittadino genovese, che l’aveva subito musicato e che in seguito l’avrebbe pubblicato grazie alla Casa Editrice Sonzogno, tutt’ora proprietaria di spartito e musica (anche se non più dei diritti d’autore, dato il tempo trascorso).
In quell’anno, cadeva giusto a Genova – a quell’epoca possedimento sabaudo – il centenario della cacciata degli austriaci che aveva preso il via dalla celebre sassata di Giovanni Battista Perasso, detto Balilla. Il Canto di Mameli venne presentato ai genovesi in quella circostanza e piacque così tanto da diventare in un batter d’occhio un Inno. I soldati di Carlo Alberto lo fischiavano attraversando il Ticino per invadere il Lombardo-Veneto durante le Cinque Giornate di Milano. Il sovrano sabaudo dovette far buon viso a cattivo gioco, constatando che quell’Inno riscuoteva più successo di tutte le marce reali e militari messe insieme.
Mameli non sopravvisse alla Prima Guerra di Indipendenza più delle illusioni savoiarde e italiane. Ma il suo Inno ormai aveva fatto breccia. Nella Seconda, i Garibaldini lo cantavano partendo da Quarto, sbarcando a Marsala e risalendo l’Italia meridionale borbonica Alla fine Garibaldi pronunciò il suo obbedisco a Teano, Vittorio Emanuele II diventò Re d’Italia e l’inno ufficiale divenne la Marcia Reale sabauda. Ma per tutto il periodo monarchico e perfino durante il Fascismo il vecchio inno risorgimentale non poté essere disconosciuto dalle autorità, che non potevano non richiamarsi ai valori del Risorgimento.
Nel 1862 Giuseppe Verdi aveva composto l’Inno delle Nazioni, mettendo insieme gli Inni Nazionali dei paesi europei allora esistenti come Stati. Accanto a God save the Queen e alla Marseillaise, il compositore di Busseto aveva inserito in rappresentanza della giovanissima Italia l’Inno di Mameli. In questa versione ne aveva diretto l’esecuzione a Londra il maestro Arturo Toscanini subito dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, mentre il suo paese cercava di ristabilire la propria immagine internazionale rompendo con il passato e la monarchia e andando a riscoprire valori e simboli del suo periodo storico migliore. Tra cui appunto l’Inno di Mameli.
La decisione del ministro Facchinetti era stata pertanto quasi automatica. Da allora, non è passato anno in cui nella Repubblica Italiana non si sia discusso se mantenere l’Inno di Mameli o sostituirlo con un brano più maestoso, più adeguato a risuonare subito prima o subito dopo i prestigiosi national anthems degli altri paesi. Il nome che si faceva più spesso era quello del Va pensiero, l’aria principale del Nabucco di Giuseppe Verdi che oltre ad essere un capolavoro era stata da lui appositamente scritta per simboleggiare – attraverso la rappresentazione della sofferenza del popolo ebraico durante la Cattività Babilonese – la sofferenza degli italiani sotto il giogo austriaco e la loro ardente aspirazione al riscatto e all’indipendenza.
Sono passati gli anni, e non se n’è fatto di nulla. L’Inno di Mameli è rimasto lì, pronto a risuonare ogni volta che gli Azzurri scendono in campo o le Forze Armate sfilano di fronte al Presidente e al popolo italiani. Quante volte lo abbiamo ascoltato, magari sorridendo imbarazzati e forse anche vergognandoci un po’ a sentire subito dopo gli inni di Francia, Gran Bretagna, Spagna, U.R.S.S., Germania, U.S.A. e altri paesi, tutti o quasi emozionanti e musicalmente soverchianti nella loro maestosità.
Finché, quasi in sordina, il 23 novembre 2012, centosessantacinque anni dopo la sua composizione, finalmente una legge dello Stato – la n. 222 – ha sancito formalmente per la prima volta l’ufficialità dell’Inno di Goffredo Mameli in qualità di inno nazionale italiano, disponendone tra l’altro l’obbligo di insegnamento nelle scuole della Repubblica. Adesso, è storia di ieri, arriva la consacrazione definitiva. «La Repubblica riconosce il testo del Canto degli italiani di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale».
Alla fine, ce la siamo tenuta e con piacere questa vecchia marcetta d’altri tempi, e pazienza se gli altri suonano capolavori musicali. Anche noi possiamo ascoltare il nostro inno con la mano sul cuore, finalmente, consapevoli che lo abbiamo preferito sacrificando nientemeno che il Maestro dei Maestri Giuseppe Verdi per la semplice ragione che proprio a questa marcetta siamo profondamente affezionati. Perché è stata scritta con il sangue di tanti di noi, dei nostri babbi, nonni, bisnonni, trisnonni e antenati vari. Che hanno patito quanto e più del popolo ebraico a Babilonia per sentirla finalmente risuonare liberamente.
Non sarà la Marsigliese, né il Dio salvi la Regina o il Deutscheland Uber Alles, ma possiamo essere orgogliosi lo stesso del Canto del giovane patriota Goffredo Mameli, perché nelle sue parole un po’ ingenue e datate e nella sua musica garibaldina in fondo è racchiusa la nostra storia migliore.
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