Ho conosciuto Domenico Garaffa il giorno che arrivai alla Scuola di Fanteria e Cavalleria di Cesano di Roma, trent’anni or sono. Se c’era un uomo, tra gli istruttori che l’esercito aveva designato alla nostra educazione militare, che meritava la qualifica di ufficiale e gentiluomo quello era lui. E lo è tutt’ora.
La profonda sensibilità che trasfondeva nelle piccole e grandi cose della vita militare, anche quelle in apparenza alla sensibilità più refrattarie, ne facevano e ne fanno un personaggio singolare, quasi d’altri tempi. Un uomo che riusciva ad essere sempre autorevole senza mai essere autoritario. Un uomo della frontiera nordamericana capace di maneggiare con la stessa abilità il winchester e le opere di William Shakespeare, un samurai giapponese capace di trattare da fedele compagna sia la letale katana da battaglia che la penna con la quale scrivere sublimi poesie, attingendo ad un mix impareggiabile di religiosità quasi taoista e di grande, grandissima, innata umanità personale.
Mi ritrovo adesso, dopo tanta strada percorsa anche grazie ai suoi insegnamenti, a leggere e commentare le sue poesie, quasi come il giornalista che intervista il Piccolo Grande Uomo dopo la battaglia di Little Big Horn e la sua vita intera spesa a cavallo tra il mondo delle giacche blu e quello della Nazione Indiana Lakota, l’ultima e più irriducibile tra quante cercarono di contrastare il passo ai Uas’ichu, gli Uomini Bianchi che portavano il progresso per sé e la morte in riserva per i Pellirosse.
Come le lacrime versate dalle donne apache a Leap Mountain dopo la carica suicida dei loro uomini contro i Lunghi Coltelli ai quali non volevano arrendersi, e trasmutatesi in ossidiana secondo una celebre leggenda, le parole di Domenico si solidificano non appena disposte in versi in questa raccolta che contiene la sua vita raccontata attraverso i suoi più profondi sentimenti.
L’amore per una donna quechua, Occhi che Sorridono, completa – più che chiudere – un cerchio disegnato da quella che più che una passione è una comunanza di sentimenti provata da sempre dall’ufficiale Garaffa verso il popolo delle Grandi Pianure, quegli Indios che cominciarono a morire il giorno che sul loro continente sbarcò il primo dei Conquistadores europei, e che ancora di morire non hanno finito. Quegli Indios del cui destino ormai – esauritasi l’epopea celebrativa del Far West hollywoodiano – sappiamo tutto e ci rammarichiamo, ma per il quale nessuno ha mai chiesto scusa.
“Per vivere tra i solchi della storia al di fuori della tua arroganza devi ancora chiedere scusa Uas’ichu – uomo bianco – Io lo sto facendo”. Parole che non ti aspetteresti sulle labbra e sulla penna di un Soldato Blu. Ma c’è di più del rispetto (tutto sommato normale) nutrito da un guerriero per il guerriero di un’altra tribù. Domenico Garaffa rende omaggio ad un popolo, ad una Nazione – quella degli Indiani d’America – che la storia ha ormai quasi cancellato dai propri archivi, senza rendersi conto di aver sostituito un progresso più apparente che reale (per quanto forse inevitabile come il procedere dei binari del Cavallo di Ferro) ad una filosofia di vita in totale comunanza con la Natura e nello stesso tempo con il proprio Io interiore di cui sopravvivono ormai pochissimi esempi.
Come in una narrazione condotta con la tecnica dei flashback, nei versi di Domenico scorrono momenti della sua vita personale e soprattutto sentimentale alternati senza soluzione di continuità a figure e momenti emblematici della storia degli Indiani del Nord e del Sud America. C’è l’Uomo della Medicina Alce Nero, il primo a raccontare all’Uomo Bianco i segreti più intimi della religiosità dei popoli che veneravano il Grande Spirito. C’é il grande condottiero Cavallo Pazzo, l’eroe indiano della straordinaria vittoria di Little Big Horn destinata a tramutarsi poco dopo in una sconfitta altrettanto epica. C’é la principessa del Machu Picchu, la vecchia cima delle Ande da cui seguendo il Dio Sole Inti sono discesi i Quetchua, i discendenti degli Inca sopravvissuti, fino a mescolarsi con noi. Sono questi i protagonisti delle pagine, mescolati ai battiti del cuore ed ai frammenti di vita e di amore dell’autore.
La donna che smuove il cuore ed i versi del poeta lo ricongiunge ad un’epopea a cui il suo cuore stesso tendeva già prima di incontrarla. Ma quella donna è la porta del tempo, lo Stargate che riconduce quel cuore a quella Wounded Knee che per due volte è stata teatro della fine dei sogni di libertà e sopravvivenza indiani, a quella religione dell’Essere che le grandi praterie dell’Ovest conoscevano e coltivavano ancora fino all’arrivo dell’Uomo Bianco, il quale a sua volta ne aveva perso il ricordo al tempo della distruzione della koiné mediterranea governata dalla religione della Grande Madre Terra.
«Sui tuoi costoni assetati tra fiori d’agave d’espressionismo danzano i miei passi orchestrati da millenni di storia. Approdo di egemonie sospinte da vento di scirocco con vele cazzate al fruscio di canneti o poggiate al grecale in locande di Re mediterranei».
Dalla natia Trinacria assolata ai deserti dell’Arizona, Domenico Garaffa ufficiale e gentiluomo rappresenta con i suoi versi l’elegia struggente di un mondo che non c’è più e che forse era l’unico mondo per il quale i veri guerrieri valeva la pena che lottassero. Perdersi tra le sue Lacrime di Apache è un viaggio – breve ma intenso – che consigliamo a chiunque senta la necessità di chiedere scusa al popolo che non c’è più. Ed anche a se stesso.
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