Sacrario militare di Redipuglia (GO)
Il mio bisnonno paterno Stefano era a Valona, quando arrivò la notizia dell’armistizio. Era tra quelli che avevano aggiunto la corona d’Albania a quella d’Italia di Sua Maestà Vittorio Emanuele III. Se la godette poco, perché la malaria contratta al fronte non gli lasciò scampo, e pochi anni dopo mio nonno Angelo si ritrovò orfano e senza mezzi di sostentamento.
Mio nonno materno Gaetano invece aveva combattuto sul fronte carsico. Tornò a casa che sua figlia primogenita Amelia, la sorella più grande di mia madre, quasi non lo riconosceva. Aveva nemmeno tre anni quando era partito.
Mio zio Ulderigo, che sarebbe diventato suo marito, era un ragazzo del ’99 e aveva 18 anni quando fu richiamato alle armi, dopo Caporetto.
Quando furono chiamati al distretto militare, avevano l’età in cui per il loro nipote che adesso scrive queste righe il problema più grande di ogni giorno che Dio metteva in terra era cosa fare stasera: pizzeria, discoteca o cinema? La preoccupazione più grave era l’interrogazione o l’esame del giorno dopo. L’impegno più difficile era risparmiare i soldi per il primo motorino o la prima macchina, quando non te la compravano i genitori.
Come loro, anche questo nipote fu chiamato a suo tempo al distretto militare, ma se la cavò con tre giorni di visite e poi con quindici mesi di servizio militare svolto in tempo di assoluta pace. Una pace che verosimilmente niente e nessuno avrebbe potuto più turbare, come invece era successo a loro cento anni fa. Al sottotenente Simone Borri è stato risparmiato di essere messo alla prova, e di dover dimostrare in condizioni estreme di essere all’altezza di ciò che gli era stato insegnato e dei doni che la sorte gli aveva elargito, essendo nato e cresciuto come tutta la sua generazione – la prima di una serie ad oggi ininterrotta – in un’epoca in cui la vita raramente mostrava il suo lato più duro.
A loro era andata diversamente. Adesso non ci sono più, la Grande Guerra li risparmiò, ma il tempo che passa non lo fa con nessuno. Questo secolo trascorso da Vittorio veneto se li è portati via, secondo legge di natura. Sono rimasti in pochi anche quelli che possono testimoniare dell’altra guerra, quella – ancora più terribile – che sarebbe scoppiata vent’anni dopo.
Tra un po’ sarò rimasto solo io. Come dice il sergente delle Giubbe Rosse alla recluta prima dell’attacco degli Zulu, qui ci siamo noi e nessun altro. E toccherà a noi, finché avremo vita raccontare al posto di chi non c’é più le storie sentite narrare tante volte. Rendere omaggio a quei ragazzi del ‘99 o di pochi anni prima che partirono per il fango, il freddo e la pioggia delle trincee nelle Dolomiti e nel Carso. E lì rimasero, quelli che sopravvissero, per tre anni e mezzo. Perché noi oggi potessimo chiamarci italiani, con dignità se non con orgoglio. Perché fossimo liberi e relativamente spensierati, e avessimo oggi come problema principale la scelta tra una serata al cinema o in discoteca. Perché potessimo tornare liberamente sui luoghi di quelle maledette trincee, per farci le vacanze estive.
In famiglia mia, non ho mai udito pronunciare una parola contro quella guerra, contro l’Italia e cosa ci è costato unirla. Questa di ieri era la festa di chi si sente italiano, e mi sono sentito in diritto e in dovere di festeggiarla. Per me e per i miei nonni, genitori e zii che allora c’erano, e che quei fatti che oggi si rievocavano li hanno vissuti.
Il paese, non so, forse è stata un’altra occasione persa, tra la retorica ufficiale e consueta di queste manifestazioni e le inevitabili strumentalizzazioni politiche, le altrettanto consuete e interminabili divisioni tra fascisti e antifascisti nella commemorazione tra l’altro di anni e vicende in cui il fascismo era ancora di là da venire. O nella constatazione della mancata istruzione delle nuove generazioni a proposito di quello che la vecchia scuola della Riforma Gentile riusciva ancora a trasmettere a noi scolari del boom economico. Il 4 novembre, ai miei tempi di bambino e poi ragazzo, era la festa della Vittoria, la fine del Risorgimento, la nascita della nostra nazione, la rinascita del nostro popolo. Tutto molto più semplice, nel bene e nel male. Chissà se queste parole e questi concetti significano ancora qualcosa, e per quanta gente.
Sono stati quattro anni lunghi. Le rievocazioni costringono a bilanci ed esami spesso impietosi. Nell’estate di quattro anni fa, si trattava di spiegare le cause dello scoppio della Grande Guerra, che doveva essere nella concezione di chi la scatenò l’ultima delle guerre ottocentesche ed invece si rivelò la prima del mondo moderno, con un potere distruttivo che l’uomo aveva concepito fino ad allora soltanto nei propri incubi notturni. Che cosa prese ad un mondo apparentemente allegro e danzante come l’equipaggio del Titanic al ritmo della celebre orchestrina – tanto da essere etichettato come Belle Epoque – e che tra grida di entusiasmo e frenesia di menar le mani si ritrovò dai saloni da ballo in mezzo al fango. Portandosi dietro popolazioni appena più consapevoli di quanto lo erano state nel secolo precedente e più o meno nelle stesse condizioni di vita. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, malgrado la propaganda di regimi totalitari che avevano preso il posti di millenari imperi, fu assai meno profuso di entusiasmo rispetto a quello della Prima. Nel 1914, invece, l’aggettivo radioso veniva spesso attribuito al sostantivo futuro, mentre già risuonavano le prime cannonate e fucilate.
L’anno dopo, si trattò di spiegare perché in quella carneficina che il Papa di allora aveva già definito inutile strage finì per entrarci anche l’Italia, che in un primo tempo era sembrata avere la felice intuizione della neutralità. Perché il mito del Risorgimento, di Trento e Trieste italiane, aveva avuto la meglio su ogni altra considerazione, su ideologie potenti come il socialismo e su radicate convinzioni religiose che avevano tenuto fuori i cattolici dalla vita politica fino a pochi anni prima. Perché i nostri nonni e zii vestirono quella divisa grigioverde senza un lamento, e si avviarono al fronte così come avevano fatto i loro nonni a Curtatone e Montanara, a Solferino e San Martino.
Poi vennero gli anni in cui le rievocazioni dovettero occuparsi del mondo che era improvvisamente cambiato, nelle trincee in cui maturava la rivolta contro una guerra condotta in modo idiota dai vertici politici e militari, una carneficina senza più senso né scopo. Il ventesimo secolo ed il mondo contemporaneo nacquero ad Ypres, tra le nebbie ispessite dal gas nervino, o sul Carso dove i Carabinieri dovevano minacciare di fucilazione truppe sempre più restie a lanciarsi contro le mitragliatrici austriache meglio appostate e implacabili, o a Brest Litovsk dove i soldati dello Zar improvvisamente cominciarono a prendere ordini dal Soviet Supremo di San Pietroburgo, rivoltandosi contro un potere millenario che affondava le radici nei secoli bui del medioevo barbarico e dando incredibilmente vita a ciò di cui si era fino ad allora parlato in termini teorici e fantascientifici: il comunismo che avrebbe sostituito il capitalismo e il latifondismo. E il mondo si ritrovò di fronte a nuovi entusiasmi e/o a nuove paure dall’oggi al domani, come se invece di tre anni ne fossero passati trecento.
Poi è arrivato questo 2018, il centenario della nascita del secolo americano, di tutto ciò che avrebbe fatto della Germania un pericolo pubblico con cui non abbiamo ancora smesso di fare i conti, della fine di Imperi che pretendevano di risalire all’Antica Roma, della nascita di società di massa che dovevano imparare a loro spese, con ancora maggiore spargimento di sangue, a convivere tra loro dentro le regole della democrazia (un qualcosa che non si vedeva all’opera sul continente europeo dai tempi della Atene di Pericle e della Roma di Giulio Cesare). Per noi italiani, il centenario della fine del calvario risorgimentale, della più grande vittoria militare della nostra storia, per quanto allora percepita come mutilata, del nostro scoprirci nazione, popolo, comunità (senza presagire che questa identità sarebbe entrata presto in crisi come conseguenza di un’altra guerra ancora più devastante, vent’anni dopo, una guerra che stavolta avremmo perso, e nel modo più ignominioso e per di più combattendo dalla parte sbagliata).
Sono stati quattro anni lunghi, e non rimpiangiamo una sola goccia dell’inchiostro profuso a raccontarli. Speriamo solo che siano serviti a qualcosa, soprattutto per le generazioni future, a cui siamo sempre meno capaci di spiegare com’era fatto il mondo che abbiamo ricevuto dalle mani dei nostri nonni, genitori e zii, che a loro volta l’avevano visto nascere nel sangue e in mezzo a stenti che possiamo solo cercare di immaginare.
Abbiamo tutti in famiglia storie lontane da narrare, fotografie ingiallite da ritirare fuori ogni tanto, quando la curiosità o la nostalgia prendono il sopravvento. E’ tempo meglio speso, a nostro giudizio, di quello trascorso nei cosiddetti cortei antifascisti che hanno preteso di appropriarsi di una commemorazione che con il fascismo – pro o contro – non aveva e non ha nulla a che vedere. E che fino all’ultimo giorno, il 4 novembre del centenario trascorso sui moli di Trieste dove tutto si concluse felicemente cento anni fa, hanno tentato di buttarla in indegna caciara.
Non sarà grazie a costoro che il fascismo – o suoi succedanei futuri – verranno tenuti distanti dalla nostra società e dalle nostre vite. Sarà molto più utile tenere da conto nella nostra memoria quelle immagini dei nostri soldati sotto la pioggia. Immersi nel fango e nella nebbia di trincee dove li aveva spediti l’onda lunga di un sentimento che aveva cominciato a maturare più di cento anni prima. E che, ci piaccia o no, è a tutt’oggi la nostra eredità migliore.
Quei nostri soldati, dovunque riposino adesso, sono quanto di meglio abbiamo avuto nella nostra storia.
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