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Sayonara

Dal momento in cui il braciere olimpico si è spento nello stadio di Tokyo, il mondo ha 48 ore di tempo per lasciare il Giappone. Proprio così, la tregua olimpica si è conclusa, torniamo tutti alle nostre angosce, alle nostre paranoie, ai nostri ricordati che devi morire, e possibilmente male. Di tutto ciò, il Giappone tra tutti i paesi del mondo è quello che ne ha la quantità più consistente. E forse inestinguibile.

Vanno capiti, anche se in realtà non ci riusciremo mai. Né in quindici giorni come stavolta o l’altra del 1964, né in tutta una vita intera. Compriamo le loro macchine, sfruttiamo la loro tecnologia superiore, ma per noi restano sostanzialmente degli alieni. Giravano per il mondo con le mascherine sul volto già vent’anni fa, con il covid che allora non era neanche nella mente di Dio. C’era il suo perché, e noi eravamo e siamo tutt’ora distanti anni luce dal comprendere quel perché.

Anche stavolta, la millenaria cultura di cui sono portatori, il loro affascinante e inquietante mistero li abbiamo appena sfiorati. Ripartiamo da Tokyo con la bocca piena di tanti, dei soliti luoghi comuni. In realtà del Giappone e dei giapponesi ne sappiamo quanto prima.

enolagay-140806-001Vanno capiti, tuttavia, in un modo o nell’altro. Quattro giorni fa cadeva l’anniversario di Hiroshima. Altra occasione per inutili luoghi comuni che appena scalfiscono la superficie di un dramma che è appartenuto, appartiene all’intera umanità. Il Giappone del 1945 avrebbe continuato la seconda guerra mondiale all’infinito, perché così volevano l’imperatore e la millenaria cultura che l’aveva espresso. Hiroo Onoda resisté a Lubang, nelle Filippine, fino al 1974, 29 anni dopo che il suo imperatore aveva dichiarato la sconfitta del suo paese. Ma lui non poteva saperlo, e in assenza di direttive continuò a combattere da solo fino ad un’epoca che stentava ormai anche solo a ricordare perfino le ragioni della sua battaglia. Pochi anni prima, Yukio Mishima aveva inscenato in diretta TV uno degli ultimi suicidi rituali ispirati da una cultura dei samurai che si credeva estinta e che invece era sopravvissuta sotto spoglie diverse. Alla Toyota, alla Mitsubishi, alla Honda costruiscono auto e moto per vendicare la sconfitta del 1945, non per altro. E il bello è che ci stanno riuscendo.

In previsione di tutto questo e per mettervi fine prima possibile, nonché nel frattempo risparmiare qualche altro milione di vite da ambo le parti fu sganciato Little Boy su Hiroshima ed il suo fratello Fat Man su Nagasaki. Scelta che si può discutere, come tutte le scelte, ma che agli occhi di chi la prese (con un Olocausto, anzi più di un Olocausto alle spalle) pareva la migliore, o la meno tragica, sul momento.

Nel 1964 parve a tutti la scelta migliore fare entrare nello stadio olimpico di Tokyo come ultimo tedoforo un ragazzo nato pochi minuti dopo che sulla sua città fosse sganciata la prima bomba atomica della storia. Per chi non lo sapesse, OlimpiadiTokyo210412-001, il ragazzo che portava in mano la fiaccola olimpica e sulle spalle il mondo intero, è vissuto fino al 10 settembre 2014. E’ lecito chiedersi quanti di questi suoi quasi 70 anni avrebbe vissuto se qualcuno non avesse preso la scelta più impopolare della storia dell’umanità.

Sette anni prima, Paul Tibbets, il comandante di Enola Gay, l’aereo che eseguì il primo di quegli ordini, lo aveva preceduto nella tomba, una tomba tutt’ora senza nome nel cimitero della sua città.

I giapponesi non hanno mai superato queste vecchie storie, ed il carico di sentimenti che si portavano e si portano dietro. Prova ne sia che la loro terza candidatura ai Giochi Olimpici (dopo quella da loro resa ineffettiva ed affogata nel sangue nel 1940 e dopo quella del 1964) è stata funestata e complicata oltre ogni misura dalla psico-pandemia che ha investito tutto il mondo, ma il loro paese in modo particolare. Perché alla psiche, soprattutto a quella che abita nel nostro profondo, l’inconscio, non si comanda. Nippon voleva rinunciare ai Giochi non per paura di un flop economico, ma per paura di un nuovo – per quanto più subdolo – orrore del tipo di Hiroshima.

Sayonara. Japanese goodbye. Così cantava una vecchia canzone degli anni cinquanta, colonna sonora di un film che oggi pare datato come tutte le cose di cui non abbiamo più memoria. Eppure ci aiutano assai per tentare di capire il Giappone di oggi, come quello di settant’anni fa.

Dopo la resa del 2 settembre 1945, il Sol Levante fu per sette anni un protettorato americano, costretto con la forza ad adeguarsi al mondo moderno. Niente più cultura dei samurai (almeno in apparenza), niente più natura divina dell’imperatore, niente più esercito (pare che fossero i giapponesi stessi a chiederlo al governatore americano Douglas McArthur, per evitare il risorgere della cultura della katana).

Sayonara210809-003Nel 1952, il trattato di pace, stipulato quando ormai nemici ed amici erano cambiati e la guerra fredda imponeva nuove priorità, consentì al Giappone di recuperare la sua sovranità e la sua forza di autodifesa (l’abbiamo vista sfilare sotto la bandiera olimpica domenica scorsa). Come la Germania, il Giappone disarmato rischiava di diventare una facile porta d’accesso al nostro mondo per l’Unione Sovietica e per la Cina comuniste. Il Giappone divenne un solido alleato dell’Occidente a guida americana, anche se per la verità giapponesi ed occidentali continuarono a lungo ad essere come acqua e olio e a non mescolarsi.

Il libro scritto da James Michener (il romanziere americano che ha raccontato la nascita e la storia di buona parte dei paesi del mondo) era meno coraggioso del film che Joshua Logan ne trasse per la Warner Bros. Nel primo non c’è il lieto fine, nel secondo sì. Ai lettori la scelta di quale delle due versioni della storia risulta più efficace e – con il senno di poi – di impatto.

Sayonara. La storia è questa, emblematica di un’epoca, gli anni cinquanta, in cui il razzismo continuava ad essere semplicemente il riflesso della millenaria incapacità culturale delle etnie di coesistere, coabitare, compenetrarsi, mescolare il rispettivo sangue. L’aviere Lloyd Ace Gruver, eroe di quella guerra di Corea che aveva trasferito le tensioni della seconda guerra mondiale direttamente nella terza, durante un periodo di riposo nel Giappone post-bellico si innamora di Hana-Ogi, una ballerina del Kabuki, il teatro tradizionale nipponico.

Sayonara210809-002Alle due razze è proibito di fraternizzare, dal codice militare americano e da quello morale giapponese. La ballerina del Kabuki è considerata nella sua patria una specie di vestale dell’Antica Roma. Non le sono concessi uomini, figurarsi quelli dalla pelle bianca provenienti dall’altra sponda dell’Oceano.

All’aviere Gruver vengono posti analoghi paletti: dal tempo della guerra mondiale gli americani vedono i musi gialli giapponesi come un qualcosa di infido e ostile, la sindrome di cui soffrono loro (tutt’ora) è quella di Pearl Harbor. Durante la guerra li hanno rinchiusi in campi di concentramento per tenerli sotto controllo. Quei campi adesso sono chiusi, ma allo stesso modo per i charlie, i musi gialli, sono chiuse le porte della società americana.

Il film è del 1957, non il decennio migliore della storia americana dal punto di vista dei diritti civili. Ma è coraggioso, e colpisce allo stomaco ed al cuore. La giapponese Miyoshi Umeki fu la prima asiatica a vincere l’Oscar come attrice non protagonista, nella parte della donna della coppia costretta al suicidio per non doversi separare (lui costretto al rientro in patria da solo, lei costretta a rimanere da sola in Giappone, incinta e disonorata).

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Proprio il dramma dell’aviere Kelly e della sua moglie Katsumi innesca un movimento che porta alla revoca delle disposizioni militari restrittive ed all’inizio della fine del reciproco razzismo tra le razze bianca e gialla. E così, hanno buon gioco il talento ed il carisma di Marlon Brando a pronunciare  le battute finali che chiudono il film ed un epoca.

Da notare, per una volta il doppiaggio italiano è migliore dell’originale statunitense. Nella versione americana, Marlon ha una voce ed una cadenza da ragazzaccio dispettoso che peraltro gli furono contestate anche in patria. Serviva qualcosa di diverso, per dare maggiore enfasi a quelle battute ed al momento storico che raccontavano. Nella versione italiana, quel qualcosa c’é. La voce di Marlon è secca come lo schiaffo tirato in faccia al mondo intero.

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Giornalista: Maggiore? Le alte sfere daranno fuori di matto a proposito di questo, e anche i giapponesi non la prenderanno bene. Ha qualcosa da dire a tutti loro, signore?

Major Gruver: Sì. Dite loro: Sayonara.

Sayonara Japanese Goodbye ( 1957 ) – Lyrics

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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