Musica

Un cavallo senza nome

Dewey Bunnell, Dan Peek, e Gerry Beckley  erano tutti  figli di militari. Tre ragazzi sballottati, come spesso capitava in questi casi, da una parte all’altra del mondo. Mentre i loro padri erano di stanza alla base dell’aeronautica degli Stati Uniti presso la RAF, a metà degli anni ’60, i tre ragazzi frequentavano la London Central High School, vicino a Londra.

Ed è qui che si incontrarono.

In principio suonavano in due gruppi diversi ma già nel 1970 decisero di formare una band insieme . Si fecero prestare delle chitarre acustiche e iniziarono a lavorare ad un genere che fosse personale e consono ai loro gusti : uno stile che ricordasse  i gruppi di country rock come Crosby o Stills & Nash. 

Benché assenti dagli Stati Uniti fin dall’infanzia, nel cuore si sentivano americani e così scelsero proprio America come nome per la loro band, iniziando a esibirsi in giro nei quartieri di Londra. 

Gli America, ai tempi del loro primo successo

Gli America, ai tempi del loro primo successo

Nel 1971 pubblicarono il loro primo album, intitolato semplicemente America: il disco uscì soltanto in Europa e non ottenne successo, anzi, il riscontro fu assai tiepido.

Questa prima edizione del disco non conteneva ancora  A horse with no name: Bunnell la compose  mentre la band si trovava nello studio di casa del musicista Arthur Brown, nel Dorset e inizialmente il titolo era pure un altro.

Doveva chiamarsi Desert Song: nell’inverno freddo e piovoso dell’Inghilterra quello che Bunnel cercò di catturare fu la sensazione del deserto caldo e secco, ispirandosi a un dipinto di Salvador Dalí che era appeso ad una parete dello studio dove registravano e, attingendo anche ai suoi ricordi d’infanzia, quando con la famiglia aveva attraverso il deserto dell’Arizona e del Nuovo Messico, riuscì davvero a tirarne fuori un bel pezzo, carico di espressività. Anche la Warner Bros  ebbe la stessa  sensazione, e capendone il potenziale, volle lanciare il gruppo anche in America.

Inizialmente, fu scelta una ballata scritta da Beckley, dal titolo I need  you, ma il risultato non era molto convincente, soprattutto come primo singolo di lancio.

La Warner chiese dunque alla band altro materiale e così spuntò fuori Desert Song, poi modificata nel titolo molto più efficace di : A horse with no name.

Pubblicata come maxi-singolo con tre canzoni nel Regno Unito, in Irlanda, Francia, Italia e Paesi Bassi alla fine del 1971, nel gennaio 1972 raggiunse il terzo posto delle classiche inglesi, spingendo l’etichetta del gruppo a pubblicare il singolo negli Stati Uniti e a ripubblicare il vecchio  album, includendo anche questa canzone. 

Il 25 marzo, sia il singolo che l’album raggiunsero il primo posto negli Stati Uniti; la canzone rimase al primo posto per tre settimane, l’album per cinque. 

La copertina dell’album “A horse with no Name”

La copertina dell’album “A horse with no Name”

L’accoglienza negli Stati Uniti però non fu subito entusiasta, poiché  la somiglianza della canzone con alcuni lavori di Neil Young suscitarono  alcune polemiche. 

«So che praticamente tutti, al primo ascolto, credevano che fosse Neil  disse in un’ intervista  Bunnell – Non mi sono mai liberato del tutto dal fatto di essere stato ispirato da lui, penso che sia nella struttura della canzone tanto quanto nel tono della sua voce». 

Per un bizzarro gioco del destino, fu  proprio A horse with no name a prendere il posto di Heart of Gold di Neil Young al numero 1 della classifica, quell’ anno! 

Musicalmente, la struttura della canzone è molto semplice, composta di soli due accordi che si ripetono: un’ evidente dimostrazione di quanto non sia sempre necessario sfoggiare virtuosismi o chissà quali tecniche per comporre musica, capace di durare a lungo nel tempo.

Ancora oggi Beckley racconta: «Mi viene sempre chiesto, “Qual è la tua canzone preferita?” E di solito nomino sempre “A horse” perché la canzone stessa rappresenta l’inizio del viaggio. Il testo dice “On the first part of the journey” (“Nella prima parte del viaggio)”. Lo dice in realtà nella canzone, ma è quello che è stato, è stato davvero un viaggio incredibile».

E quando anche noi l’ascoltiamo, ancora oggi a distanza di anni, non possiamo fare a meno di immaginarci alla guida di una chevrolet d’epoca convertibile, intenti a percorrere  una di quelle interminabili autostrade che attraversano le grandi pianure e poi i deserti, tra  la natura  e le ghost Towns, attraversando da un confine all’altro gli Stati Uniti d’America, con occhiali da sole specchiati e capelli al vento, la musica che esce dalle casse a tutto volume e nel cuore, la speranza di poter vivere, o forse soltanto sognare, un nuovo incredibile viaggio !

Autore

Redazione

Lascia un commento