«Ho appreso questa strana storia da un tale che non aveva alcuna ragione di raccontarla, né a me né ad altri. Il principio mi fu narrato in grazia di certe vecchie bottiglie di vino che ebbero il potere di sciogliere lo scilinguagnolo di quel tale; e quanto al seguito, debbo esserne grato alla mia incredulità».
Cominciava così una delle tante storie a puntate pubblicata a partire dall’ottobre 1912 su Argosy All-Story Weekly, la celebre rivista di New York che aveva importato in Nordamerica il feuilleton alla francese, o romanzo d’appendice. Nel trasferimento, la qualità letteraria si era un po’ persa, passando da Honoré de Balzac, Victor Hugo, Eugene Sue, Alexandre Dumas, ai tanti che pubblicavano sulla rivista americana materiale così scadente da essere ben presto derubricato in un nuovo genere, la pulp fiction.
Robaccia, spesso e volentieri, al punto da far dire a uno dei tanti lettori, destinato in seguito a diventare il più famoso degli autori della stessa Argosy, che «se c’era gente che veniva pagata per scrivere la spazzatura che si leggeva su alcune riviste, io sarei stato capace di scrivere storie non da meno. Come dato di fatto, sebbene non avessi mai scritto un storia, sapevo con certezza che avrei saputo scriverne di altrettanto avvincenti e forse anche di più di quelle che mi capitava di leggere su certe riviste».
A questa presa di coscienza tardiva si deve Tarzan delle scimmie, il romanzo d’appendice più celebre della storia della letteratura del Novecento, ed il successo mediatico più clamoroso riscosso da un personaggio della letteratura avventurosa con implicazioni filosofico-scientifiche e capace di essere traghettato con eguale successo in ambito fumettistico e cinematografico, le nuove arti del ventesimo secolo.
Quel lettore di pulp che a quasi quarant’anni aveva realizzato di poter trovare finalmente la sua strada con quell’incipit all’apparenza uguale a quello di tante altre storie di scarso successo ma destinato a condurre altri lettori dentro la storia più originale e affascinante tra quelle mai ambientate nella madre di tutte le terre ignote dell’epoca, la Jungla, si chiamava Edgar Rice Burroughs.
Era nato a Chicago il 1° settembre 1875, ultima progenie di due famiglie, i Rice ed i Burroughs, che vantavano un’ascendenza risalente addirittura alla colonizzazione originaria del Nordamerica da parte dei Padri Pellegrini. Famiglie che avevano preso parte a tutti gli eventi più importanti della storia del loro paese, dalla Rivoluzione contro l’Inghilterra alla Guerra Civile per l’abolizione della schiavitù. Suo padre era un veterano nordista, il maggiore George Tyler Burroughs. Il figlio sognava di ripercorrerne le orme.
Edgar frequentò una serie di collegi che avrebbero dovuto indirizzarlo verso West Point, l’accademia militare degli Stati Uniti. Avendo fallito la qualificazione, si rassegnò comunque ad arruolarsi come soldato semplice nel reparto più prestigioso che l’esercito statunitense potesse vantare all’epoca: il Settimo Cavalleria.
Un anno dopo la sua nascita, la milizia nata all’indomani della Guerra Civile per fronteggiare il problema principale della neonata Unione dopo quello della secessione del Sud, la questione indiana, era stata annientata a Little Big Horn il 22 giugno 1876 dai Cheyenne di Toro Seduto e Cavallo Pazzo. Non si era salvato nessuno, nemmeno il leggendario comandante George Armstrong Custer. Da quella sconfitta, paradossalmente, il mito del Settimo Cavalleria era però uscito rafforzato, e molti giovani americani sognavano di marciare al ritmo del Garry Owen, l’inno di battaglia di Custer.
Burroughs sembrò aver coronato un sogno, per poi vederselo strappare subito via da una visita medica che accertò una insufficienza cardiaca e lo costrinse nel 1897 a tornare in abiti civili. A 24 anni, i sogni di Edgar Rice Burroughs sembravano finiti.
Il ragazzo tuttavia non si perse d’animo, e tentò la fortuna in numerosi mestieri: poliziotto ferroviario, minatore, cercatore d’oro, negoziante in un drug-store, venditore ambulante di dolciumi, cow-boy, contabile e venditore di temperini. Tutte strade apparentemente senza sfondo, tanto che all’altezza del 1911 le cronache vogliono che fosse sull’orlo del suicidio. La sensazione di insoddisfazione e di fallimento sembravano giunte al culmine, quando proprio per ingannare il tempo libero a disposizione tra un lavoro poco appagante e l‘altro aveva scoperto Argosy e la letteratura pulp.
I sogni del giovane Edgar ripresero vita di colpo, attraverso i fiumi di inchiostro che presero a scorrere una volta che decise di aprire i cancelli alla propria fantasia. Dapprima fu la volta della Principessa di Marte, primo volume di una serie ambientata nientemeno che sul Pianeta Rosso. Protagonista (autobiografico in un certo senso) il capitano delle Giacche Blu John Carter che, inseguito dagli indiani nel deserto dell’Arizona, si ritrova in una notte di luna piena teletrasportato su Marte e da lì prende il via la sua avvincente saga fantascientifica. Una storia originale, che avrebbe avuto un discreto successo. Mai quanto la successiva, però.
Terminato il primo racconto, reintitolato Sotto le Lune di Marte, Burroughs prese a dare forma all’altra sua idea. E con questa stavolta fece centro pieno.
Dai tempi di Jean Jacques Rousseau, filosofi e scrittori si erano cimentati ad immaginare le possibilità di sopravvivenza e reinserimento nel consorzio civile di un buon selvaggio che, abbandonato originariamente nella foresta in mezzo alle belve più o meno feroci, dopo aver trascorso un congruo lasso di tempo assolutamente ignaro del linguaggio umano e dei rudimenti del vivere civile, veniva trovato da esploratori e riportato alla civiltà, dimostrando di potervisi riadattare perfettamente grazie ai pazienti insegnamenti dei suoi méntori.
Successivamente al romanticismo di Rousseau, il positivismo di Charles Darwin aveva dato maggiore sostanz01a scientifica (o ritenuta tale) a queste convinzioni. Secondo lo studioso dell’evoluzione, la razza bianca aveva nei suoi geni il progresso, ed un suo esponente era sempre a tempo a riallinearsi a tale progresso in qualsiasi momento, per il solo fatto di esserne appunto esponente. Il più grande scrittore inglese dell’epoca, Rudyard Kipling, era un sostenitore di questa filosofia, ed anche colui che sembrò fino ad un certo punto averle dato la migliore veste letteraria nel suo capolavoro che gli valse anche il Premio Nobel, Il Libro della Giungla.
Il trovatello Mowgli, allevato dalla pantera Bagheera e dall’orso Baloo, è un cucciolo di razza bianca disperso nella Jungla. Dopo mille peripezie, e soprattutto dopo essere sfuggito alla mortale nemica la tigre Shere-Khan (che vede in lui giustamente il prototipo del cacciatore bianco che un giorno, se lasciato crescere, tornerà per dare la caccia a lei stessa ed ucciderla), il cucciolo d’uomo torna nel suo branco, la razza umana, apparentemente senza sforzo, non appena gli giunge il richiamo del sangue e della sua ascendenza (nella splendida riduzione cinematografica di Walt Disney, sotto le sembianze di una graziosa femmina della sua specie).
Sembrava che, artisticamente parlando, più di così non si potesse produrre. E invece toccò allo stesso Kipling commentare, una decina d’anni dopo, che il genio dei geni era uno che aveva scritto una serie intitolata Tarzan delle scimmie.
Il discendente dei Patrioti del New England che avevano dato il via alla Rivoluzione Americana del 1776, come molti americani non aveva dimenticato la propria ascendenza inglese e la rispettava e venerava come nient’altro. Il protagonista dei romanzi di Burroughs pertanto non solo è un cucciolo d’uomo bianco anch’egli, ma della specie più pregiata che si ritenesse esistere all’epoca: l’aristocrazia britannica.
John Clayton jr. è il figlio di un Lord che si reca in Africa nera per conto del Colonial Office di Londra. I suoi genitori cadono vittime dei pirati prima e delle belve feroci poi. Il piccolo rampollo viene allevato da una scimmia antropomorfa che ha appena perso il suo, di cuccioli, e che pertanto è ben felice di sostituirlo nutrendo il piccolo Lord con il suo latte ed i suoi insegnamenti ferini.
Per la scimmia Kala ed il suo branco, John Clayton jr. diventa – nel linguaggio immaginario delle Grandi Scimmie – Tar-Zan, Pelle Bianca.
E’ l’inizio di una storia che ormai tutti conoscono, per averla letta nei libri di Burroughs, nelle riduzioni a fumetti di Burne Hogarth, Joe Kubert e Russ Manning, per averla vista al cinema nelle decine di riduzioni cinematografiche, a cominciare da quella che consacrò il primo ed il più grande dei suoi interpreti, Johnny Weissmuller, plurimedaglia d’oro nel nuoto alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, e dal 1932, per tutti semplicemente Tarzan l’Uomo Scimmia. Per ritrovare un caso di immedesimazione di un attore con il suo più celebre personaggio, bisognerà aspettare Sean Connery ed il suo Agente 007 James Bond.
Nel libro originario, Tarzan viene ritrovato da una spedizione di esploratori europei che lo identifica come il figlio di Lord Clayton e legittimo erede del suo titolo e del suo seggio alla Camera dei Lords. Secondo gli insegnamenti di Rousseau, di Darwin e sul solco letterario già tracciato da Kipling, il ragazzo selvaggio si rivela perfettamente all’altezza di recuperare vent’anni in uno, e di ripresentarsi in pochi mesi alla sua famiglia in grado di sedere a tavola e conversare secondo le più raffinate regole dell’etichetta.
Il primo libro del 1912 si chiude con un finale a sorpresa, improntato al più ortodosso romanticismo ottocentesco che permeava ancora a quell’epoca i feuilleton. Consapevole che reclamare il proprio titolo nuocerebbe alla donna di cui si è innamorato, la fatidica Jane Porter nel frattempo fidanzata al cugino destinatario di quel suo titolo nel periodo in cui la sua esistenza era ignorata (ma segretamente e perdutamente innamorata a sua volta di lui), Tarzan compie il beau geste di rinunciare, e tornarsene nella Jungla che a quel punto sente come l’unica sua casa.
L’ultima frase del libro è quella rivolta da Tarzan proprio al cugino Cecil Clayton, che – ancora ignaro della sua vera identità – gli rivolge la domanda circa le proprie origini.
«Se la domanda è lecita, come mai siete andato a cascare in quella Jungla maledetta?»
«Ci sono nato – rispose Tarzan con voce molto calma. – Mia madre era una grande scimmia, e quindi non poteva spiegarmi tante cose. Chi fosse mio padre, non l’ho mai saputo».
La saga di Tarzan avrebbe visto aggiungersi altri 27 libri a quel primo, durante i quali non solo il Signore della Jungla avrebbe avuto modo di reclamare e vedersi riconoscere il proprio titolo legittimo di Lord nonché ottenere la mano dell’amata Jane, ma avrebbe fatto del suo ideatore uno degli autori più famosi e più ricchi della storia.
Quando morì, il 19 marzo 1950 a causa di un attacco di cuore (l’organo che bene o male aveva segnato il suo destino, dirottandolo dal Settimo Cavalleria alla penna più di 50 anni prima), le sue ceneri furono sparse sul suolo di una città che portava nientemeno che il nome della sua creatura più famosa. Tarzana, California, U.S.
Aveva fatto in tempo tuttavia a trovarsi a Pearl Harbor il giorno dell’attacco giapponese, il 7 dicembre 1941. E come i suoi John Carter e John Clayton in arte Tarzan, non aveva esitato un istante ad arruolarsi – alla veneranda età di sessantasei anni – come corrispondente di guerra.
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